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giovedì 7 febbraio 2013

Sulla scuola. Che fare

Pubblichiamo la prima parte, ne seguiranno altre due, di un intervento di Flavia Morando.

Mario Monti, la sera del 25 novembre a Che Tempo Che Fa ha affermato che i docenti hanno difeso interessi corporativi rifiutandosi di lavorare due ore in più per liberare risorse per la scuola ed ha aggiunto che si sono fatti scudo degli studenti per difendere questi interessi.
Gramellini, la sera successiva, ha commentato in modo totalmente negativo quelle affermazioni difendendo gli insegnanti, la difficoltà del loro lavoro, le condizioni in cui sono costretti ad operare, la loro retribuzione ben al di sotto degli altri paesi europei, ha precisato che le ore di lavoro erano sei e non due in più e senza retribuzione  ecc …

Desidero partire da questo dibattito per dare il mio contributo alla riflessione sulla scuola e sugli insegnanti.
Sono un’ insegnante di lettere presso un liceo delle scienze umane (Psicopedagogico) di Roma, ho 58 anni e – rebus sic stantibus (!) – andrò in pensione nel 2017. Ho cominciato a lavorare nel 1978: quattro ore di supplenza settimanali in una scuola media a tempo pieno, sperimentale, dove un gruppo motivato e impegnato  di docenti  insegnava a ragazzi di periferia, pluribocciati da altre scuole, portatori di handicap anche gravi; si mangiava in classi nel sottoscala, si facevano consigli di classe e riunioni pomeridiane interminabili, e scrutini che duravano fino a tarda sera; si era costituita una biblioteca scolastica con libri di testo che venivano consegnati gratuitamente ai ragazzi che poi li restituivano alla fine dell’anno. Affermare che si lavorava con pochissimi mezzi e in condizioni disagiate è dir poco.
Ho amato subito questo lavoro, così tanto da non considerarlo neppure tale se non nei momenti in cui sono costretta a redigere qualcosa di burocratico ed inutile che nessuno  leggerà,  né utilizzerà mai.
Allora ero convinta che tutto sarebbe cambiato, che le cose sarebbero migliorate, che l’articolo 3 della Costituzione, laddove afferma che la Repubblica si impegna a rimuovere le cause che impediscono la realizzazione dell’uguaglianza tra i cittadini, sarebbe stato attuato in primo luogo da una scuola pubblica, gratuita  per i poveri, con quindici alunni per classe con i quali svolgere una didattica individuale. Una scuola a tempo pieno dove si potesse lavorare come lavorava Don Milani.
E invece ho assistito al degrado lento e progressivo, a riforme che si limitavano a mettere qualche pezza a colori per fare finta che la scuola fosse più moderna e si rinnovasse; a riforme lasciate per aria o fatte a partire dalla fine, ovvero dagli esami di Stato, invece che prendere in mano tutto l’impianto e ricostruirlo dalle fondamenta, a riforme che non erano altro che “forme” di risparmio. Ho visto classi sempre più numerose, il precariato divenire una piaga, la continuità didattica scomparire, le vecchie lavagne ritornare, le sedie e i banchi malandati rimanere delle stesse dimensioni di quelli dei miei nonni con una popolazione di giovani sempre più alti; i bagni degli studenti restare con le porte che non si chiudono e senza carta igienica, i libri di testo rincarare, le bocciature ritornare, la dispersione e l’abbandono scolastico crescere, i laureati diminuire, i figli dei più poveri e dei meno colti rimanere tali, i figli dei colti e dei ricchi incrementare le loro possibilità  non grazie alla scuola pubblica, bensì allo studio all’estero, ai corsi di inglese privati.
Tutti i governi che si sono succeduti sembra che si siano seriamente impegnati a trascurare e impoverire  la scuola pubblica ma mai a cessare di finanziare quella privata, come ancora oggi, nonostante le ristrettezze, si continua a fare. E così la funzione  che la Costituzione le riconosce e le attribuisce è stata disattesa. E questo – sono convinta – non a caso.
Nonostante ciò, insieme a molti irriducibili colleghi, ho continuato con lo stesso entusiasmo, lo stesso piacere e la stessa energia a lavorare con i ragazzi. Anzi, durante il colpo di grazia inferto alla scuola dai governi Berlusconi, ho fatto del mio impegno una sorta di risposta rivoluzionaria: è vero, “vogliono affossare la scuola pubblica”, ebbene, non è scioperando inutilmente, non è agevolando più o meno sotterraneamente autogestioni ed occupazioni studentesche che mi opporrò a questo,  ma lavorando di più e meglio, offrendo ai miei studenti le opportunità di discussione, di approfondimento, di letture, di esperienze che questa sconquassata condizione ci permette.
Arrivo ora alla questione con la quale ho aperto questo mio discorso: i docenti e la realtà del loro impegno lavorativo.
1 (continua)