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mercoledì 30 gennaio 2013

PER NON DIMENTICARE

Sebbene non appaia d’immediata pertinenza rispetto ai temi del riformismo, la questione della pace nel mondo (e soprattutto la sua attiva ricerca da parte dei governanti delle nazioni) ne costituisce in realtà la premessa e il terreno di fondazione. Vale allora la pena non dimenticare – fra le tante stragi che continuano a restare marginali nelle cronache televisive e dei media – quella del popolo siriano. E’ ciò a cui ci invita un articolo a firma di Shady Hamadi (*)  apparso il 17 gennaio scorso sul web magazine “Segnali di fumo” di Amnesty International in cui si denuncia che “i giovani in Siria vengano sistematicamente massacrati. 83 ragazzi, giovani con sogni e speranze, sono morti nell’università di Aleppo il 15 gennaio. Sono stati uccisi da una bomba. Stavano facendo gli esami, perché la vita continua in Siria, nonostante tutto.”
Dopo quasi due anni di violenza che ha stremato la popolazione civile, la realtà siriana non solo non ha ancora visto il concretizzarsi di azioni diplomatiche significative, ma rischia di non suscitare più nell’opinione pubblica la dovuta indignazione, generando per contro un irresponsabile oblio.
In questo senso ci fa riflettere il monito di Shady Hamadi: “Il dolore deve interessarci anche quando non è il nostro: solo da questo principio potremo coltivare speranza per i siriani e aiutarli, un giorno, a sostituire la vendetta con la giustizia.” 

   (*) Shady Hamadi, giovane scrittore italo-siriano, è stato promotore fra l’altro nel febbraio 2012 della campagna “Un fiocco nero per la Siria” mirata a sensibilizzare l’opinione pubblica sul dramma siriano.

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venerdì 25 gennaio 2013

Maestri di liberalismo: Frédéric Bastiat


Lo Stato!

Che cos'è?  dov'è?  cosa fa?  cosa dovrebbe fare?

Tutto quello che noi sappiamo, è che è un personaggio misterioso, e certamente il più sollecitato, il più tormentato, il più indaffarato, il più consigliato, il più accusato, il più invocato e il più incitato che ci sia al mondo.
Signore, io non ho l'onore di conoscervi, ma sono pronto a scommettere dieci a uno che da alcuni mesi voi sognate progetti grandiosi; e se questo è vero, scommetto ancora dieci a uno che voi assegnate allo Stato il compito di realizzarli.

E voi, Signora, io sono sicuro che nel profondo del vostro animo desiderate che vengano sanati tutti i mali di questa povera umanità, e che non sareste nient'affatto scontenta se solo lo Stato si accingesse a questo compito.
(...)

« Lo Stato deve offrire gratuitamente l'istruzione e l'educazione a tutti i cittadini. »

Esso deve:
« Un insegnamento generale e professionale appropriato, per quanto possibile, ai bisogni, alle inclinazioni e alle capacità di ciascun cittadino. »

Esso deve:
« Insegnare al cittadino i doveri verso Dio, verso gli uomini e verso sé stesso; sviluppare i suoi sentimenti, le sue inclinazioni e le sue facoltà, procurargli infine le conoscenze per esercitare il suo lavoro, per garantirsi i suoi interessi e per far valere i suoi diritti. »

Esso deve:
« Mettere alla portata di tutti le lettere e le arti, il patrimonio culturale, i tesori dello spirito, tutti i godimenti intellettuali che innalzano e fortificano l'animo umano. »

Esso deve:
« Offrire riparazione per ogni calamità, incendio, inondazione, ecc. (questo eccetera ne dice più di quanto non sembri) sofferti da un cittadino. »

Esso deve:
« Intervenire nei rapporti tra capitale e lavoro e farsi regolatore del credito. »

Esso deve:
« Procurare all'agricoltura dei sostegni sicuri e una protezione efficace. »

Esso deve:
« Acquisire la proprietà di ferrovie, canali, miniere, » e senza dubbio amministrarli con quella capacità gestionale che lo caratterizzano.

Esso deve:
« Stimolare le imprese audaci, incoraggiarle e aiutarle per mezzo di tutte le risorse capaci di farle trionfare. Regolatore del credito, lo Stato indirizzerà con le sue direttive le associazioni industriali e agricole, al fine di garantirne il successo. »

Lo Stato deve occuparsi di tutto ciò, senza tralasciare i compiti che esso assolve attualmente; e, per fare un esempio, occorrerà che esso conservi sempre, nei confronti degli stranieri, un atteggiamento minaccioso; infatti, affermano i firmatari del programma, « uniti da questa santa solidarietà e memori delle imprese gloriose della Francia repubblicana, noi trasportiamo i nostri desideri e le nostre speranze al di là delle barriere che il dispotismo innalza tra le nazioni: i diritti che noi pretendiamo, noi li vogliamo anche per tutti coloro che il giogo della tirannia opprime; noi vogliamo che questo nostro glorioso esercito sia ancora, se occorre, l'esercito della libertà. »

Voi vi rendete conto che la mano premurosa dello Stato, questa buona mano che dona e distribuisce, sarà molto occupata sotto il governo dei Montagnardi. Voi credete forse che anche l'altra mano, quella rude, che penetra e svuota le nostre tasche, non sarà altrettanto occupata?

Abbandonate le vostre illusioni. Coloro che cercano la popolarità non saprebbero il loro mestiere, se non avessero acquisito l'arte di mostrare la mano benevola, mentre nascondono la mano rude.

Il loro dominio sarebbe altrimenti la somma felicità del contribuente.

«È il superfluo, dicono loro, non il necessario che deve essere colpito dall'imposta.»

Non sarebbe forse una bella età quella in cui, per coprirci di benefici, il fisco si contentasse di prendere solo il nostro superfluo?

Ma questo non è tutto. I Montagnardi aspirano a che « l'imposta perda il suo carattere oppressivo e non sia nulla di più che un atto di fraternità. »

Bontà del cielo!  io ben sapevo che va di moda infilare dappertutto la fraternità, ma escludevo di certo che la si potesse introdurre tra le carte dell'agente delle tasse.

Scendendo ai dettagli, i firmatari del programma affermano:

« Noi vogliamo l'abolizione immediata delle imposte che colpiscono i beni di prima necessità, come il sale, le bevande, eccetera.

« La riforma  dell'imposta fondiaria, delle imposte di consumo, delle concessioni.

« L'amministrazione gratuita della giustizia, vale a dire la semplificazione delle procedure e la riduzione delle spese.»

(Qui si fa senza dubbio riferimento al costo dei bolli)

Così, imposta fondiaria, imposta di consumo, patenti, bolli, sale, bevande, valori postali, tutto viene messo nel calderone. Questi signori hanno trovato il segreto di concedere un attivismo sfrenato alla mano benefica dello Stato paralizzando al tempo stesso la mano rude.

Ebbene, chiedo io al lettore equilibrato, non è questo far mostra di infantilismo, e per di più di infantilismo dannoso?

Come è possibile che il popolo non faccia una rivoluzione dopo l'altra, dal momento che ha deciso di fermare la propria protesta solo dopo aver compreso l'esistenza di questa contraddizione: « Non dare nulla allo Stato e ricevere molto in cambio! »

C'è qualcuno forse che crede che se i Montagnardi arrivassero al potere, non sarebbero essi stessi le vittime dei raggiri che utilizzano per impadronirsene?

Cittadini, in tutte le epoche, si sono presentati due sistemi politici, e tutti e due possono avanzare buone ragioni per la loro esistenza.  In base al primo, lo Stato deve fare molto, ma ha anche il diritto di prendere molto. In base all'altro, la doppia azione di dare e di prendere deve essere estremamente ridotta. Bisogna scegliere tra questi due sistemi. Ma, per quanto riguarda un terzo sistema, che prende qualcosa degli altri due, e che consiste nell'esigere tutto dallo Stato senza dare alcunché, esso è chimerico, assurdo, puerile, contraddittorio, pericoloso. Coloro che lo sostengono, per ricavarne la soddisfazione di accusare tutti i governi di impotenza e di esporli così alle vostre invettive, questi vi illudono e vi ingannano, o quanto meno ingannano sé stessi.

Quanto a noi, pensiamo che lo Stato non è e non dovrebbe essere altra cosa che la forza messa in comune, non per essere tra tutti i cittadini uno strumento di oppressione e di spoliazione, ma, al contrario, per garantire a ciascuno il suo, e far regnare la giustizia e la pace.

Lo Stato
, 1848

giovedì 24 gennaio 2013

Abolire il valore legale: Einaudi '47


Vanità dei titoli di studio
da Scritti di sociologia e politica in onore di Luigi Sturzo (1947)

Ho l'impressione che alla costituente si corra, in materia di scuola, dietro alle parole invece che alla sostanza.
Tutti vogliono la libertà dell'insegnamento; e tutti sono parimenti d'accordo nell'affermare la necessità degli esami di stato quando si debbano rilasciare diplomi di laurea, di licenza, di abilitazione alle professioni ecc. ecc. Ma libertà di insegnamento ed esami di stato sono concetti incompatibili. Esame di stato vuol dire programma, vuol dire interrogazioni prestabilite su materie obbligatorie; vuol dire certificato rilasciato, da uomini investiti legalmente di un pubblico ufficio, in nome di una determinata autorità pubblica, detta stato, certificato il quale attesta che il tale ha subito certi dati e non altri esami su certe materie prestabilite in regolamenti emanati da quella certa autorità; ed è, per aver subito quelle pubbliche prove, dichiarato atto ad esercitare questa o quella professione, od essere ammesso in dati impieghi presso la stessa od altre pubbliche autorità; ad esclusione di chi non sia proprietario di analogo certificato o diploma o licenza od abilitazione.
Come può supporsi che, dato il punto di partenza, tutte le scuole, pubbliche e private, statali e municipali e consorziali, laiche e religiose, tradizionali o rivoluzionarie non si esemplino sul tipo conforme alle esigenze dell'esame di stato? Avremo ancora dei seminari; od i seminari non si trasformeranno in ginnasi e licei, con programma identico a quello delle scuole statali, chiamate con quel nome?
Finché non sarà tolto qualsiasi valore legale ai certificati rilasciati da ogni ordine di scuole, dalle elementari alle universitarie, noi non avremo mai libertà di insegnamento; avremo insegnanti occupati a ficcare nella testa degli scolari il massimo numero di quelle nozioni sulle quali potrà cadere l’interrogazione al momento degli esami di stato. Nozioni e non idee; appiccicature mnemoniche e non eccitamenti alla curiosità scientifica ed alla formazione morale dell'individuo.
Sono vissuto per quasi mezzo secolo nella scuola; ed ho imparato che quei pezzi di carta che si chiamano diplomi di laurea, certificati di licenza valgono meno della carta su cui sono scritti. Per alcuni - vogliamo giungere al 10 per cento dei portatori di diplomi? – il giovane vale assai di più di quel che sta scritto sui pezzo di carta od, almeno, del pregio che l'opinione pubblica vi attribuisce; ma « legalmente » l'un pezzo di carta è simile ad ogni altro e la loro contemplazione non giova a chi deve fare una scelta tra coloro che offrono se stessi agli impieghi ed alle professioni.
A qual fine dunque lo stato si affanna a mettere sui diplomi un timbro ufficiale privo di qualsiasi effettivo valore? Il più ovvio e primo effetto è quello di trarre in inganno i diplomati medesimi; inducendoli a credere che, grazie a quel pezzo di carta, essi hanno acquistato il diritto od una ragionevole aspettativa ad ottenere un posto che li elevi al disopra degli addetti alle fatiche manuali dei campi o delle officine. L'inganno dà ragione di quel piccolo germe di verità che è contenuto nelle querimonie universali intorno al crescente ed eccessivo numero degli studenti medi ed universitari. Querimonie assurde; ché tutti dovremmo augurarci cresca sino al massimo - intendendo per «massimo» la « totalità » dei giovani viventi in un paese ed in età di apprendere, ad eccezione soltanto degli invincibilmente stupidi, e dei deliberatamente restii ad ogni studio - il numero di coloro i quali giungano ad assolvere quegli studi medi od universitari, ai quali dalle loro attitudini essi sono fatti adatti.
Che danno verrebbe al nostro paese se gli studenti universitari invece di essere meno di duecentomila, giungessero al milione? Dovremmo, è vero, sopportare un costo grandioso di edifici, di laboratori, di biblioteche; dovremmo formare un corpo adatto di insegnanti. Opera non di anni, ma di decenni. Quando si giungesse alla meta, il paese non sarebbe forse maggiormente prospero dal punto di vista economico; e più sano e gagliardo dal punto di vista morale e sociale? Un popolo di uomini istruiti non val di più di un popolo di ignoranti? Un popolo di lavoratori tecnicamente capaci non val di più di un popolo di manovali? Il danno non sta nei molti, nei moltissimi studenti; sta nell'inganno perpetrato contro di essi, lasciando credere che il pezzo di carta dia diritto a qualcosa; e cioè, nell'opinione universale, all' impiego pubblico sicuro od alla professione tranquilla.
Il valore legale dei diplomi dà luogo, ancora, ad un altro inganno e questo contro la società. Esso eccita le invidie e gli egoismi professionali. L'ingegnere, a causa di quel diritto a dirsi « ing. dott. », si reputa dappiù del geometra; ed ambi sono collegati contro i periti agrari. I dottori in scienze commerciali sono in arme contro i ragionieri; ed ambedue contro gli avvocati. Dottori in legge, avvocati e procuratori combattono lotte omeriche gli uni contro gli altri. Chi ha detto che gli esempi scolastici delle contese dei ciabattini contro i calzolai, degli stipettai contro  i falegnami, e di questi contro i carpentieri sono roba anacronistica, ricordi medievali? Si calunnia atrocemente il medio evo quando lo si fa responsabile dell'irrigidimento corporativo che fu invece opera dei governi detti assoluti dei secoli XVII e XVIII; ma le battaglie dei secoli più oscuri del corporativismo assolutistico parranno scaramucce in confronto a quelle che si profilano sull'orizzonte dei tempi nostri. Dare un valore legale al diploma di ragioniere vuol dire che soltanto all'insignito di quel diploma è lecito compiere taluni lavori ragionieristici e nessun altro può attendervi; ed egli a sua volta non può fare cosa che è privilegio del dottore in scienze commerciali o dell'avvocato.
Quelle dei secoli XVII e XVIII erano idee atte a rovinare le finanze delle arti dei calzolai e dei ciabattini; ma, pur creando posizioni monopolistiche, non riuscivano ad impedire del tutto l'opera logoratrice dei non iscritti. Ché gli stati assoluti dei secoli scorsi disponevano, per farsi obbedire, di armi di gran lunga meno efficaci di quelle che sono proprie degli stati moderni; e dove non giungeva saltuariamente il dragone a cavallo, ivi prosperavano quei che non avevano diritto di dirsi né ciabattini né calzolai. Oggi, la potestà pubblica giunge in ogni dove; ed i magistrati hanno molta maggiore autorità per far rispettare, come è loro dovere, la legge. Anche la legge iniqua, la quale, creando diplomi ed attribuendo ad essi valore legale, condanna alla geenna della disoccupazione coloro che, essendone sforniti, non possono attentarsi a compiere il lavoro che essi sarebbero pur capacissimi di compiere ma è privilegio del diplomato.


Per l’abolizione del valore legale del titolo di studio
da Scuola e Libertà (1955)

Il valore legale del titolo di studio ha, nel sistema napoleonico, taluni effetti e principalmente quello di esclusiva. Solo i diplomati in medicina e veterinaria sono medici o veterinari; solo i diplomati in otolaringoiatria hanno diritto di farsi dentisti; solo i diplomati di ingegneria di costruire ponti e case e via dicendo. Privilegio gravissimo; perché salvo due o tre casi interessanti la salute e la incolumità pubblica, non si vede perché, se così piace al cliente, il ragioniere non possa fare il mestiere del dottor commercialista, il geometra quello dell'agronomo ed il contadino attento e capace quello del diplomato in viticultura ed enologia. Il peggio è che l'esclusiva partorisce la legittima aspettativa. Il giovane diplomato al quale è stato dichiarato che, in virtù di legge, egli soltanto ed i suoi pari hanno diritto ad esercitare la professione libera dell'avvocato o procuratore od a partecipare ai concorsi banditi da questo o da quel ministero, ad essere scelti periti in determinate controversie giudiziarie, a ricevere incarichi temporanei di supplenze scolastiche, trasforma volentieri il diritto suo teorico di esclusiva in legittima aspettativa; ed aspettando, talvolta invano, finisce per entrare nella cerchia di coloro che sono definiti « disoccupati intellettuali ». Il giovane, al quale i bolli e le firme di personaggi autorevoli e forniti di autorità legale hanno fatto sperare di potere esercitare professioni o coprire pubblici impieghi, diventa moralmente disoccupato se non consegue quel successo professionale o non riesce ad entrare in quell'ufficio che dal possesso del diploma si riprometteva di conseguire.
Poiché nulla dice che impieghi ed avviamenti professionali debbono essere ogni anno vacanti in numero uguale a quello degli aspiranti licenziati o diplomati, nasce la delusione. In verità il concetto medesimo della disoccupazione « intellettuale » è concetto assurdo, ove sia considerato distintamente da quello della disoccupazione in genere; la quale può, di tempo in tempo, variabilmente colpire molte o poche o parecchie branche dell'attività umana. La dottrina ha inventato parole nuove per indicare i diversi generi di disoccupazione; e, fra l'altre, quella di « strutturale » per indicare una disoccupazione che parrebbe più duratura di altre e dipenderebbe da non so quali vizi detti di struttura della organizzazione economica della società odierna. Qualunque siano questi vizi, parmi certo che il vizio situato alla radice della disoccupazione degli intellettuali in Italia sia la aspettativa dell'impiego pubblico o della professione remunerata privata fatta legittima dall'istituto del valore legale dei diplomi rilasciati da pubbliche autorità.
Se il diploma non fosse stato fornito degli amminicoli esteriori, in cui soltanto sta la sostanza del valore legale, forse non sarebbe nato il sentimento morale della disoccupazione; forse il diplomato non avrebbe avuto la sensazione di essere divenuto un minorato solo perché frattanto avesse seguitato ad attendere alle cose della terra o della bottega o del mestiere di suo padre o dei suoi.
Forse non avrebbe pensato di decadere se, in attesa, avesse fatto il manovale ad il meccanico. Il diploma l'avrebbe tirato fuori il giorno in cui taluno, vedendolo lavorare, si fosse interessato a lui ed ai suoi precedenti; e quel giorno il diploma avrebbe avuto un valore ben diverso e più alto di quello legale, fatto valere attraverso le solite lettere di raccomandazione di amici, parenti, personaggi autorevoli, deputati, senatori, ministri; lettere produttrici di altre lettere, di tempo sprecato e di lentezza amministrativa.
Forse; perché quando in un paese da un secolo e mezzo è inoculato il veleno del « valore legale » è vano sperare che, se anche quel valore fosse negato, vengano meno, non aiutando il costume, i suoi effetti. Che sono di irrigidimento del meccanismo sociale, di formazione di un regime corporativo di caste l'una dell'altra invidiosa, ciascuna intenta ad impedire all'altra di lavorare diversamente da quel che è scritto nelle leggi e nei regolamenti; e tutte intente a cercare occupazione, salari, stipendi là dove non si possono ottenere e cioè nei vincoli posti alla libertà di agire degli uomini.
Il mito del «valore legale» del diploma scolastico è davvero insostituibile? Un qualunque mito è accettato se e finché nessun altro mito è reputato per consenso generale più vantaggioso. Il giorno in cui si riconobbe che il metodo del rompere la testa agli avversari politici era caduto in discredito - ma era durato a lungo, per secoli e per millenni - e si accettò la tesi del contare le teste invece di romperle; l'accettazione non si basò su un ragionamento. Si sarebbe dovuto supporre, per giustificare la razionalità del sistema, che tutte le teste fossero ugualmente atte alla scelta politica; laddove è nota che talune teste sono pensanti e le altre meramente ricettive del pensamento altrui; che le une sono fornite dell'attitudine a pensare, riflettere e giudicare, le altre sono del tutto impulsive; che alcune teste sono preparate e le altre del tutto digiune di qualsiasi voglia e capacità di preparazione alla scelta politica. Ma subito si dovette riflettere che la scelta fra certi tipi di teste e certe altre avrebbe dovuto essere fatta da giudici non solo sapienti ma imparziali ed incorruttibili; sicché, per la difficoltà di valutare le teste, e per il pericolo di ritorno al vecchio sistema di romperle per affidare la scelta politica alle più dure, si preferì, come al minor male, ricorrere al sistema di contarle. Che non è razionale ed è un mito, destinato a durare sinché non se ne inventi uno migliore. Da quel che pare durerà a lungo, anche perché ha operato tollerabilmente bene in tutti i paesi ed i tempi nei quali si è riusciti, con l'istruzione, l'educazione, l'esperienza e la discussione, a ridurre al minimo il rischio che i non pensanti piglino il sopravvento sui pensanti.
Il mito del valore legale dei diplomi statali non è, dicevasi, fortunatamente siffatto da dover essere accettato per mancanza di concorrenti. Basta fare appello alla verità, la quale dice che la fonte dell'idoneità scientifica, tecnica, teorica o pratica, umanistica, professionale non è il sovrano o il popolo o il rettore o il preside o una qualsiasi specie di autorità pubblica; non è la pergamena ufficiale dichiarativa del possesso del diploma. Ogni uomo ha diritto di insegnare e di affermare che il tale o tal altro suo scolaro ha profittato del suo insegnamento. Giudice della verità della dichiarazione è colui il quale intende giovarsi dei servizi di un altro uomo, sia questi fornito o non di dichiarazioni più o meno autorevoli di idoneità. Le persone o gli istituti i quali, rilasciando diplomi, fanno dichiarazioni in merito alla dottrina teorica od alla perizia pratica altrui godono di variabilissime reputazioni, hanno autorevolezze disformi l'uno dall'altro. Si va da chi ha aperto una scuola e si è acquistato reputazione di capace o valoroso insegnante in questo o quel ramo dello scibile; ed un tempo, innanzi al 1860, fiorivano, particolarmente in Napoli, codeste scuole private ad opera di uomini, che furono poi segnalati nelle arti, nelle lettere e nelle scienze. Che cosa altro erano le «botteghe» di pittori e scultori riconosciuti poi sommi, se non scuole private? V'era bisogno di un bollo statale per accreditare i giovani usciti dalla bottega di Giotto o di Michelangelo?
Accadde si radunassero taluni venuti in fama di dotti e gli scolari accorressero ad apprendere dalle «letture» di essi i rudimenti del diritto o della medicina o della filosofia. Si insegnò e si apprese innanzi che, attratti dalla fama acquistata da lettori e scolari, intervenissero imperatori e papi e re a dichiarare l'esistenza di un corpo, detto Università degli studi, ed a conferire al corpo il diritto di rilasciar diplomi di baccelliere, di maestro o di dottore. Nei conventi degli ordini religiosi convennero uomini dediti alla meditazione ed insegnarono ai giovani chiamati da intima vocazione ad entrare nell'ordine; e i collegi di Oxford o di Cambridge risalgono spesso a questa origine ed i membri si dicono fellows o frati ed hanno a capo un warden o padre guardiano. Chi diede loro la facoltà di insegnare e giudicare? Il sovrano poi sanzionò il fatto già accaduto, la fama già riconosciuta; ma la fonte del diritto di insegnare e dichiarare non era il diploma imperiale o la bolla papale; era invece il riconoscimento pubblico spontaneo di un corpo di facoltà nato dal fatto, e affermato dalla gelosa tutela del buon nome del collegio insegnante. Il riconoscimento viene meno ed i diplomi perdono valore quando lo spirito di abnegazione dei monaci insegnanti si affievolisce; quando il crescere del reddito dei patrimoni dei corpi insegnanti rende appetibili le cattedre per motivi diversi da quelli scientifici e le cariche si danno a prebendari favoriti o simoniaci. Altre scuole, altri corpi, altri collegi sorgono contro i corpi ribassati o decadenti o corrotti.
Ancor oggi, questo è il tipo dominante nei paesi anglosassoni. Non ordine, non gerarchia, non uniformità, non regolamentazione, non valore legale dichiarato dallo stato; ma disordine, varietà, mutabilità, alegalità dei diplomi variamente stilati che ogni sorta di scuole, collegi, università rilascia, per l'autorità che formalmente deriva bensì, e non sempre, da un diploma regio, da una carta di incorporazione; ma diplomi e carte non sono nulla di più e forse parecchio di meno dei decreti di riconoscimento di corpi morali, di associazioni filantropiche, di enti più o meno economici, di personalità giuridiche con contenuto variabile, i quali sono firmati ogni anno in Italia da ministri e da presidenti di repubblica e non hanno di fatto alcun ulteriore, come era la terminologia d'un tempo, tratto di conseguenza.
Una diversità tipica, sebbene non necessaria, vien fuori dal confronto delle parole diverse usate per fatti uguali nel nostro paese e in quelli anglosassoni; ed è la minor frequenza, qui, del titolo dottorale. La singolarità nasce dalla mania del titolo cresciuta oltremisura da noi; sicché ciascuno si riterrebbe disonorato se, dopo aver frequentato una scuola universitaria, non fosse almeno proclamato «dottore» in qualche cosa, e si videro uomini appartenenti a professioni illustri agitarsi per «conquistare» il diritto di aggiungere all'antico appellativo di ingegnere, che veramente li distingue e li illustra, l'altro di dottore, atto soltanto a creare confusione; e pure si videro i ragionieri, venuti con quell'insegna in giusta reputazione, non aver requie sinché a coloro che avevano proseguito negli studi non fosse concesso l'uso del titolo di dottore commercialista, quasi che la nuova denominazione non fosse meno propria di quella antica. La generalizzazione del titolo dottorale, altra conseguenza del mito del valore legale, reca non onore, ma discredito. Non forse nell'uso comune soltanto i medici son detti dottori? È credibile che vivano in un paese tanti uomini dotti quanti hanno diritto di chiamarsi, a decine o a centinaia di migliaia, dottori? Fu caratteristico, nel tempo di vacanza, in Italia, dei titoli cavallereschi, tra il venir meno degli insigniti della Corona d'Italia e il non ancor nato ordine al merito della Repubblica, il moltiplicarsi dei «dottori»  nei ministeri romani. Non potendo più rivolgere la parola ai funzionari come a cavalieri e commendatori, tutti, nell'uso degli uscieri e dei postulanti, divennero «dottori»; facendo quasi scadere il valore dell'appellativo al grado di quello di «eccellenza», usitato dai lustrascarpe e dai vetturini napoletani verso tutti i loro clienti.

martedì 15 gennaio 2013

Miglioristi e liberal: dopo 23 anni stessa sorte

Per capire la scientifica liquidazione della componente liberal dalle liste PD, è utile ricordare i precedenti storici. Perché di una vicenda da vecchio Pci si è trattato e, non a caso, proprio un vecchio quadro del partitone, sempre fedele e sempre in maggioranza, come Bersani ne è stato l'autore. Correva il fatidico 1989 e in marzo a Roma si tiene il XVIII congresso del Pci, l'ultimo prima della svolta. Occhetto, eletto da poco segretario, lancia il "nuovo PCI" nel segno di Gorbaciov: il PCI non avrebbe dovuto cambiare nome, ma rivendicare orgogliosamente la sua identità di partito del comunismo democratico italiano. La traduzione politica si identificava nella scoperta di un nuovo radicalismo condito di globalismo (la famosa Amazzonia tanto cara al segretario), nel partito dei diritti (Rodotà), nel recupero del movimentismo ingraiano. A fare le spese dell'alleanza tra centro e sinistra del partito sarà la componente migliorista. Pochi giorni dopo il congresso si riunì il Comitato centrale per eleggere la nuova direzione e tutta la componente migliorista, con la sola eccezione di Napolitano, fu accuratamente impallinata dagli occhettiani con l'aiuto della sinistra. Gianni Cervetti, futuro autore del fondamentale (e unico contributo sul tema dei finanziamenti sovietici al Pci) L'oro di Mosca, non viene eletto per un voto. 
Ventitré anni dopo la storia si ripete: tutti i componenti della corrente liberal, con la sola eccezione del veltroniano Tonini, sono fatti fuori. Renzi, nel frattempo, impersona la parte del soldato disciplinato e ad Orvieto va in scena un tristissimo convegno annuale di Libertà Eguale.

venerdì 11 gennaio 2013

Ancora su sinistra ed elezioni


Caro Franco,
 
Materiali Magazine predilige il metodo liberale e, di conseguenza,  vuole essere uno spazio aperto a tutte le opinioni cui, nel nostro piccolo, volentieri diamo voce. Non voglio entrare nel merito del comunicato di Beltrandi e Segneri, mi preme, tuttavia, dirti quello che penso io dell'attuale scenario pre elettorale.

A sinistra si è formato uno schieramento di tipo conservatore, condizionato da un azionista di riferimento forte quale la CGIL. Il che si traduce in una difesa dei garantiti (lavoratori dipendenti della p.a., pensionati che ne costituiscono la maggior parte degli iscritti). Questo fronte per la sua composizione sociale e culturale è alieno da riforme che amplino le libertà. Mi riferisco alle libertà di scelta generate dalla concorrenza, dall'apertura al mercato, dallo smantellamento dei monopoli. Inseparabili dalle libertà politiche e civili. D'altra parte, ciò trova conferma nella loro contrarietà alla riduzione della spesa pubblica e conseguentemente della pressione fiscale, nella difesa dello status quo su lavoro (la difesa ad oltranza di imprese inefficienti, piuttosto che creare le condizioni per investimenti stranieri), proprietà pubbliche, scuola (la retorica sull'attacco all'istruzione  pubblica senza mai sottolineare la necessità di premiare il merito), università (la difesa del valore legale del titolo di studio), giustizia (il silenzio sull'amnistia), di un welfare che copre solo i garantiti creando quello che Pietro Ichino definisce un sistema di apartheid nei confronti dei precari. Potremmo continuare. La gestione bersaniana delle liste, questa sì nel migliore stile comunista, ne è la conferma. Tutti gli esponenti non allineati, guarda caso appartenenti alla componente liberal, sono stati tagliati fuori. Non si tratta di essere comunisti o anti comunisti, categorie dopo l'89 funzionali solo alla propaganda di B., ma di capire se vogliamo una società più aperta, libera, inclusiva. L'attuale sinistra italiana è in grado di garantire questi obiettivi ? Gli stessi perseguiti da Blair e da Shroeder, i leader della più lunga e vincente stagione vissuta dalla sinistra europea.

Paolo Allegrezza

Una replica al comunicato di Beltrandi e Segneri

riceviamo e volentieri pubblichiamo? mi tocco per sapere se sono sveglio. per quanto ancora il gusto della trovata giornalistica o della battuta ad effetto iompedirà di cercare di capire la situazione in cui ci troviamo? veramente qualcuno pensa che la situazione odierna sia paragonabile al ?48, e dove sono le armi e i comandanti partigiani desiderosi di utilizzarle? e dov'è il trauma di una resistenza che si considerava tradita? e la guerra fredda? e l'unione sovietica di cui lo stesso Togliatti diffidava non poco? e l'invadenza americana? l'asse Bersani Vendola simile a quello Nenni Togliatti? ma se uno dei problemi allora fu proprio che nel nostro paese il partito comunista era egemone della sinistra rispetto ai socialisti! e poi chi sarebbe il partito a vocazione rivoluzionaria SEL? che governa in Puglia? ma vi sentite quando parlate? che Montezemolo azzardo letture avventate in cerca di consensi posso capirlo, riedita in termini civili l'anticomunismo berlusconiano del '94 ma che si prendano tali posizioni all'interno di un grupppo il cui intento è la riflessione storica lo trovo inquietante.

 Franco Pettarin

giovedì 10 gennaio 2013

RADICALI: BELTRANDI E SEGNERI, MARIO MONTI APRA LA COALIZIONE

 
Riceviamo e volentieri pubblichiamo.

Il Professore Mario Monti, in risposta a chi lo ha accusato  di essersi ormai condannato a fare la stampella del Pd, ha espresso in modo netto e chiaro la sua disapprovazione a tale lettura: «Io non faccio la stampella di nessuno». Bene. Ma perché questa frase così limpida possa effettivamente trovare riscontro anche nelle scelte e nell’azione politica della coalizione montiana, allora - arrivati a tal punto del percorso elettorale, ormai giunto in una fase assai avanzata - la strada che Monti ha la possibilità di intraprendere è una ed una soltanto: quella di recuperare la visione politica di Alcide De Gasperi e la conseguente strategia di alleanze con le forze laiche e liberali. Il Presidente Monti, infatti, non può dimenticare che, nel 1948, il leader della Dc di allora, sia per battere alle urne il Fronte democratico popolare di Pietro Nenni e di Palmiro Togliatti sia per avere la prospettiva di poter governare in maniera stabile dopo il responso delle urne, costruì un’alleanza ampia con le forze laiche e liberali in generale e con i social-democratici di Guseppe Saragat in particolare. Le prossime elezioni politiche, quindi, per necessità riformatrice e per la notevole influenza determinata dalle questioni internazionali, per gli schieramenti in campo e per la prospettiva europea, potrebbero diventare assai simili a quelle del 18 aprile 1948. Non a caso, lo stesso leader di Italia Futura, Luca Cordero di Montezemolo, lo scorso novembre ha affermato in modo inequivoco: «Il voto del 2013 è importante come quello del 1948». Ma la scelta di De Gasperi, nel 1948, non fu quella di chiudersi nel recinto della Dc, ma aprì la propria coalizione ai Liberali, ai Repubblicani, ai socialisti democratici di Saragat che superarono il 7% dei voti. All’epoca c’era la sinistra dell’asse Nenni-Togliatti, oggi, facendo tutte le differenze del caso e i distinguo necessari, abbiamo il corrispettivo asse Bersani-Vendola. Per essere politicamente competitivo rispetto alle altre coalizioni in campo, Mario Monti ha una sola strada da percorrere, quella di De Gasperi. In altre parole, per non finire con il fare la stampella del Pd, il Presidente dimissionario può soltanto tentare di accogliere nel proprio schieramento politico altri alleati che riproducano il campo liberal-democratico del leader democristiano nel 1948.  Ci riferiamo alla Lista di scopo “Amnistia, Giustizia, Libertà” promossa dai Radicali, alla lista “Fare” di Oscar Giannino e, forse, anche ai Socialisti democratici del Psi di Nencini. Insomma,  siamo d’accordo con Montezemolo che, in quella intervista del novembre scorso, aggiunse: «Le elezioni del 2013 saranno l’appuntamento più importante per questo paese da quelle del ’48. Voltare pagina si può. Nessuna maledizione ci condanna se non saremo noi stesso a volerlo. Mettiamoci al lavoro, mettiamoci insieme, lavoriamo e crediamo nel futuro». Marco Pannella ha scritto una lettera a Mario Monti, noi aggiungiamo questo ulteriore aiuto affinché vi sia una risposta in tempi brevissimi”.

Marco Beltrandi - Pier Paolo Segneri 

                  

mercoledì 9 gennaio 2013

Giustizia è libertà. Il caso Carlotto


Quando si vuole dare un esempio delle nefandezze compiute dalla giustizia italiana, solitamente si cita il caso Tortora. In pochi ricordano vicende sepolte negli anni '70, come quella di Massimo Carlotto. Forse perché il suo protagonista è divenuto nel frattempo uno dei migliori interpreti del noir all'italiana. Eccone una  ricostruzione in sintesi (tratta da "Il fuggiasco", il libro d'esordio di C.), ricordando che l'Italia è stata appena condannata dalla Corte europea dei diritti dell'uomo per violazione dei diritti umani a causa delle condizioni delle sue carceri.

Il 20 gennaio 1976 è uccisa a Padova, nella sua abitazione, Margherita Mugello. È una studentessa di 25 anni, le hanno inferto cinquantanove coltellate. 

M.C., studente di diciannove anni e militante di Lotta Continua, scopre casualmente la vittima, insanguinata e morente, e si reca dai carabinieri a raccontare il fatto. È fermato, arrestato e imputato di omicidio.

Il 5 maggio 1978, M.C., dopo oltre un anno di istruttoria e a seguito di tre dibattimenti, è assolto per insufficienza di prove dalla Corte d'assise di Padova.

Il 19 dicembre 1979 la Corte d'appello di Venezia rovescia il verdetto e condanna M.C. A diciannove anni di reclusione.

Inizia la latitanza di M.C., prima a Parigi in seguito a Città del Messico.

Il 19 novembre 1982 la Corte di Cassazione respinge il ricorso della difesa e conferma la condanna.

Il 2 febbraio 1985 M.C. Torna dal Messico e si consegna alle autorità italiane.

Nel corso dello stesso anno nasce il "Comitato internazionale giustizia per M.C." Che promuove una raccolta di firme per la revisione del processo. Primo firmatario è Norberto Bobbio. Negli stessi mesi esce un appello su Le Monde, promosso da Jorge Amado che chiede la revisione. 

Nel frattempo M.C. S ammala gravemente in carcere ed inizia una nuova campagna per la sua scarcerazione. 

Il 12 novembre 1987 M.C. ottiene il differimento della pena per gravi problemi di salute.

Il 20 giugno 1988 i difensori, al termine di un lungo propedeutico presso la Corte d'appello di Venezia, presentano istanza di revisione presso la Corte di Cassazione.

Il 30 gennaio 1989 la Corte di Cassazione concede la revisione sulla scorta di tre nuove prove, annulla la sentenza di condanna e rinvia gli atti alla corte d'appello di Venezia per il nuovo giudizio.

Il 20 ottobre 1989, quattro giorni prima dell'entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale, ha inizio il nuovo processo. Nel corso del processo, caso unico nella storia della giustizia italiana, la Federation international des droits de l'homme invia in qualità di osservatori, alcuni esperti della polizia scientifica di Parigi, al fine di accertare la correttezza della indagini peritali. Ma il loro rapporto, totalmente a favore dell'impatto, non viene acquisito dalla Corte per limiti procedurali.

Il 22 dicembre 1990 non emette una sentenza, ma rinvia gli atti alla Corte costituzionale ritenendo pienamente provata una delle tre prove nuove e sostenendo come giudizio finale che l"imputato dovrebbe essere assolto per insufficienza di prove. Dichiara, però, di non sapere quale codice applicare. 

Il 5 luglio 1991 la Corte Costituzionale stabilisce che la Corte di Venezia avrebbe dovuto applicare il nuovo codice e assolvere M.C. con formula piena già il 22 dicembre 1990.

Il 21 febbraio 1992 ha inizio il secondo giudizio di fronte ad una nuova Corte d'assise d'appello perché il presidente era andato nel frattempo in pensione. 

Il 27 marzo 1992 la Corte conferma la sentenza di condanna del 1979. In precedenza aveva stabilito di non procedere ad una nuova istruttoria dibattimentale, bensì di recuperare la precedente tramite lettura degli atti.

Il 28 marzo 1992 il tribunale di Venezia emette l'ordine di carcerazione per l'esecuzione della pena.

Il 13 maggio 1992 M.C., dopo quarantasette giorni di carcere, ottiene nuovamente il differimento della pena per gravi motivi di salute.

Il 24 novembre 1992 la Corte di Cassazione conferma la sentenza di condanna. Nel frattempo si inizia a parlare di grazia come unico strumento in grado di chiudere il caso, considerato anche l'aggravamento delle condizioni di salute del condannato.

Il 14 dicembre 1992 i genitori di M.C. presentano istanza di grazia al Tribunale di Venezia per l'istruttoria formale. Intanto, in tutta Italia partono comitati, spettacoli, mobilitazioni per la grazia.

Il 7 aprile 1993 il presidente Scalfaro concede la grazia.

paolo allegrezza 


*l'autore voterà, in occasione delle prossime elezioni politiche del 24 e 25 febbraio 2013, la lista "Amnistia, giustizia e libertà".




giovedì 3 gennaio 2013

Umberto Serafini pioniere degli Stati Uniti d'Europa

La celebre definizione del fascismo come autobiografia della nazione, coniata da Piero Gobetti, non ci è mai piaciuta. Perché semplicistica, riduttiva, incurante del fatto che il movimento fascista non fu la continuazione di una storia già iniziata. Ma fu un fenomeno politico per niente fragile, dotato di una sua cultura politica e idea dello stato, complesso e non riducibile allo stesso mussolinismo, come hanno dimostrato gli studi Emilio Gentile. Ma si può affermare che esistono degli uomini che rappresentano un'ideale biografia della nazione ? Einaudi, Olivetti, Rossi, Spinelli, Capitini, Zevi, Dolci, Milani, Sciascia, Impastato e tanti altri che incarnano un modo ideale di essere cittadini di questa nazione ? I nomi che abbiamo citato sono molto noti, a loro modo parte di un ideale pantheon della nazione. Di molti altri si conosce poco o nulla. È il caso di Umberto Serafini (1916-2005), uno dei padri del movimento federalista del secondo dopoguerra e inesausto costruttore della prospettiva degli Stati Uniti d'Europa. Un recente volume di Carocci ne raccoglie gli scritti e il lavoro tra il 1954 e il 1996. In apertura al libro un denso saggio dello stesso Serafini sul progetto politico e istituzionale di Adriano Olivetti, di cui fu a lungo collaboratore. Uno degli scritti migliori per comprendere la macchina amministrativa teorizzata da Olivetti. Come nell'idea delle comunità olivettiane, il federalismo di Serafini nasce dal basso, ha la sua ragione nei comuni. La somma dei comuni e degli enti territoriali europei avrebbe fondato gli Stati Uniti d'Europa che sarebbero nati, come immaginava anche Spinelli, da un processo costituente. Oggi, a parte i radicali, nessuno parla di Stati uniti d'Europa. Eppure sarebbe, in primis per la sinistra, un modo per rilegittimare la presenza italiana in Europa. La battaglia federalista di Spinelli e Serafini, una delle pagine di cui andare fieri.