azine Materiali Magazine Materiali Magazine Materiali Magazine Materiali Mag

martedì 23 febbraio 2016

Tommaso Pincio/Romanzi italiani

Da una strana miscela scaturisce la scrittura di Pincio. Quanto più personaggi e luoghi dei suoi romanzi sono reali, tanto meno producono l'effetto del verosimile. Un effetto estraneo alla fedeltà assoluta al reale, vedi il dilagare di docu fiction,  giallo,  biografie romanzate, neo feulleuton (Ferrante), realismo crudo misto (l'ultimo Lagioia), prediletti dall'industria editoriale. Prevale, in P., il senso dell'estraneità, dello spaesamento che investe il lettore proprio quando pensa di essere entrato in contatto con eventi, personaggi, contesti a lui vicini. Kerouac, Kobain, Marylyn, Alan Turing, Arthur Miller, Neal Cassady, il programma spaziale americano, Roma, il Richard De Kaard di Blade runner, vanno a costituire una galleria di personaggi de contestualizzati, galleggianti in uno spazio sfinito in sui si respira un dolore remoto, impalpabile. Una pista di lavoro personalissima, ma non isolata. Condivisa da scrittori come Falco, Genna, Policastro, Pugno, Arminio, Vasta, uniti dall'estraneità al dominio della trama, non  negata di per sé, ma sottratta al dispositivo dell'intrattenimento.

M (1999), il romanzo d'esordio, contiene già tutta la strumentazione narrativa dei libri futuri: piani temporali che si sovrappongono (il 1969, la prima guerra mondiale mondiale, Weimar), personaggi estrapolati da letteratura e cinema (De Kaard), l'omaggio esplicito alle predilezioni letterarie (Philip K. Dick), inserti autobiografici, citazione di avvenimenti e personaggi della storia minore. L'azione si svolge prevalentemente nella città fantastica di Neu - Berlin nella quale De Kaard è il cacciatore di "stencil", gli umanoidi creati per uccidere. Ma neanche lui è estraneo alle manipolazioni, un altro da sé gli si è sovrapposto e solo alla fine lascerà il posto al vero. Una costruzione narrativa labirintica, in seguito non più utilizzata da P.,  entro la quale si staglia l'incubo tecnologico che avvolge la nostra vita e dal quale è possibile liberarsi e, come finale citazione dantesca, uscire a riveder le stelle.  Il fantastico è, come noto, terreno scarsamente praticato dagli scrittori italiani del '900 con la grande eccezione rappresentata da Landolfi. Ma le somiglianze si fermano qui. Non vi è in P. il tono solfureo, tipico del surrealismo landolfiano che non a caso prediligeva la forma breve. Il fantastico di P. non è figlio delle avanguardie del '900, ma dell'immaginario distopico americano, cinematografico, artistico, letterario. Una visionarietà scaturita non dallo svelamento dell'assurdo, del caos presente nel reale, ma dalla denuncia della sua iniquità, dalla necessità di pensare un mondo virtuale non  inquinato dall'ingiustizia attraverso il quale immaginare un nuovo spazio.

Ne Lo spazio sfinito (2000) inserisce personaggi reali - Arthur Miller, Jack Jerouac, Neal Cassady, Marylin - in un contesto semi fantascientifico. Kerouac è alla guida di una navicella spaziale che, per conto della Coca Cola, sorveglia lo spazio orbitale alla ricerca del senso della vita. Lo spazio sfinito è, come dice Neal Cassady nella parole finali del romanzo, una voragine che si apre quando lo spazio, le possibilità di partire sono esaurite e sembra non ci sia più un posto dove andare. Nella parodia di uno dei miti fondanti la modernità, il viaggio spaziale, P. parla del presente liquefatto in cui anche gli ultimi nomadi, i beat, sono assorbiti. Lo spazio sfinito non ha nulla a che fare con le poetiche dell'intrattenimento e del gioco, tipiche della post modernità acritica. La trama è praticamente inesistente, assorbita dalle frequenti divagazioni, il lettore è perennemente spiazzato dal misto di verosimiglianza e fantastico, il contesto temporale rimanda agli anni '50 ma sembra sempre parlare al presente.

In Un amore dell'altro mondo (2002) la vicenda di Kurt Cobain è occasione di un ulteriore sperimentazione di straniamento. Destituita ogni pretesa di oggettività tipica della biografia narrata, genere prediletto dall'editoria, la narrazione si sviluppa intorno ad un amico immaginario (Boda) di Kurt eletto a protagonista. Il desiderio del lettore di entrare nel vivo della vita di Cobain è perennemente frustrato dalla presenza di un estraneo che appare reale. Ne risulta il racconto di un dolore remoto, impalpabile che non concede nulla al voyeurismo della cronaca, visto che "la verità non esiste" come da dichiarazione programmatica posta all'inizio del testo.
Non solo non si sa chi è Kurt e chi è Boda, ma entrambi sono sottoposti ad un costante depistaggio che inevitabilmente delude i fan di Cobain e quelli del romanzo biografico. Il sabotaggio ha il suo compimento nella splendida parte finale, ambientata nel deserto del Nevada, quando emerge il tema di fondo della fuga, del desiderio di un altro mondo. Rifiutando la logora seduzione dell'eroe maledetto (come De Kaard, Neal Cassady, Kerouac), Kurt/Boda costituiscono l'allegoria di un possibile cui dare forma. Espliciti, come sempre nel primo P., i richiami a Borroughs, Dick, Kerouac e ad un'icona del negativo anni '90 come Twin Peaks. Citazioni che, tuttavia, non si risolvono nell'esibizione del gioco, ma portano al cuore di una potente costruzione narrativa in cui è in gioco il rapporto tra soggetto e realtà.  Nonostante il ricorso ad un modulo tipico delle scritture del disimpegno quale la citazione, P. ne fa un uso critico, innestato su una consapevole lettura della materialità. Compito della letteratura è sperimentare il sogno che, come in Dick, nell'istante in cui diviene collettivo apre alla possibilità di un nuovo mondo. Una poetica legata a temi peculiari del cyberpunk (lo spazio virtuale, la fuga, l'invasività del potere economico, ma non il cyborg), per il fantastico nulla ha a che fare con l'irrazionale. La scelta di una scrittura priva di identificazioni, trasparente quasi, risponde all'esigenza di mantenere alta l'attenzione su questo sforzo interpretativo e immaginativo immune da scivolamenti manieristici, ludici, idillici.

Credo che uno degli aspetti salienti della poetica di P. consista nella consapevolezza della non autonomia della pratica letteraria, tanto meno se il punto di partenza è l'esperienza di vita. Lo scrittore si muove nel caos del reale, una volta si sarebbe detto nel sue contraddizioni, certo che non vi sia risposta se non quella dell'attraversamento consapevole. In La ragazza che non era lei (2005), ritroviamo il sovvertimento spaziale (San Francisco, l'estremo oriente, un'oscura città detta Cloaca Maxima) accentuato dalla quasi completa assenza di descrizioni unitamente al sovrapporsi di piani temporali lungo i quali si dipana il viaggio tra la giovane protagonista e il narratore. Al centro della storia l'utopia hippy, vicenda più che mai rimossa nella storia recente dell'occidente, partendo dalla quale, tuttavia, è possibile immaginare possibilità di fuga dalla polvere che ci offusca lo sguardo. Come i giocatori di runaway, adulti che decidono di mollare tutto per vivere come adolescenti o come Boom, il vecchio hippy ritrovato su un'isola tailandese che non sa "se un altro mondo è davvero possibile, ma seppure lo è bisogna trovare il modo di fuggire da questo". P. è lo scrittore italiano che meglio si è posto il tema dell'esodo e per farlo non poteva che guardare alla letteratura americana e a quella produzione dell'immaginario (il rock, la psichedelia) che prima e meglio di altre  ha coltivato quei temi.

L'estraneità di P. al nichilismo di tante poetiche post moderne è confermato dalla fase più recente della sua produzione inaugurata da Cinacittà (2008). Come in altri casi assistiamo ad un raffinato depistaggio condotto sui luoghi privilegiati della letteratura di genere: l'ambientazione nella Roma del futuro tropicale abbandonata dai suoi abitanti e ormai nelle mani della mafia cinese, il noir, attivato dall'omicidio di una giovane prostituta, il memoriale frutto del flash back narrato dal protagonista, in carcere sebbene non abbia compito il delitto. Il romanzo segue solo apparentemente l'abusato percorso della rappresentazione di un mondo ormai alla fine (Roma, uno dei luoghi fondativi dell'occidente), per addentrarsi nell'auto analisi compiuta dall'io narrante utilizzato qui per la prima volta. Ne emerge una riflessione sulla letteratura e sul suo potere comunicativo, sulla possibilità che dà se non di cambiare  almeno di comprendere il mondo. E allora occorre leggere biografie utili, come lo sarebbe stata quella del presidente Mao al contrario dell'interminabile ricostruzione della vita Marx cui si è inutilmente dedicato il narratore. La letteratura e la sua funzione, il tema su cui si interrogano gli ultimi libri di P.

In Hotel a zero stelle (2011), la letteratura è associata alle stanze di un albergo, luogo nomade per eccellenza, allegoria del transito. Alla trama è sostituita una successione di riflessioni sulla scrittura, scaturita dalla solita, prediletta galleria di autori. Greene, Kerouac, Fitzgerald, interpretano una poetica del denudamento, della messa in gioco  della propria soggettività. Ma senza consolazione perché la letteratura non è di per sé via d'uscita, ma, come nell'indiretta citazione da Foster Wallace, può aiutare chi legge a sentirsi meno solo e chi la pratica a ribellarsi alla morte interiore. Ed il solo modo per provarci é continuare ad immaginare il futuro, anche in un mondo in cui la letteratura è scomparsa. Ed è scomparsa perché gli umani non ne avvertono più l'esigenza, preferendo comunicare su un social del futuro.

Come sperimenta Ottavio Tondi, il lettore di professione protagonista di Panorama (2015),  chiamato a fare i conti, come scrive lo stesso autore nella nota finale, con il tema della sparizione. La sparizione che obbliga a fare i conti con il divenire, alla possibilità di immaginare ciò che deve ancora essere. Panorama è destinato a diventare uno dei romanzi chiave di questi anni liquidi, testo su cui tornare.

p.a.


 
 

domenica 14 febbraio 2016

Romanzi italiani, Chirù (M. Murgia)

Elena è un'attrice prossima ai quaranta interessata a farsi mentore di adolescenti promettenti. Lo ha già fatto altre due volte negli anni precedenti ed ora è pronta a misurarsi con Chirù, diciottenne promessa del violino. Il rapporto non ha nulla a che fare con l'amore, né con il sesso. Si tratta di una educazione al gusto e alla capacità di leggere se stesso e gli altri. È questo, e non è poco, che Elena si propone di dare a Chirù. Dopo un inizio felice, le cose si complicano allorché Elena si sottrae all'esclusività del rapporto intrecciando una relazione con un intellettuale svedese che in seguito sposerà. A questo punto Chirù esce di scena per ricomparire anni dopo ormai concertista affermato in un ristorante romano ove casualmente incontra Elena. Fa finta di non conoscerla per poi segnalare beffardamente la sua presenza all'amica. 
Michela Murgia al suo terzo romanzo sceglie la strada del racconto intimo, privo della dimensione collettiva delle sue prove precedenti (Il mondo deve sapere, Accabadora). Il romanzo attiva l'aspettativa di una evoluzione erotica del rapporto pedagogico, aspettativa destinata a restare delusa. E qui probabilmente ha agito sapientemente la mano editoriale. Romanzo che tradisce un che di artefatto, frutto di una intuizione, più che di una lettura del mondo. La scrittura fin troppo comoda e leggibile, ne è indiretta conferma.
p.a.

Michela Murgia, Chirù, Einaudi 2015, 15,73 e., Kindle 9,99.

sabato 6 febbraio 2016

ACCELERAZIONISMO

Il supplemento lettura del Corriere (31/1) si accorge dell'accelerazionismo. Nell'articolo di Leonardo Caffo in realtà si parla poco del manifesto accelerazionista di Srnícek e Williams e per niente del contributo italiano sul tema, il bel volume collettivo curato da Matteo Pasquinelli, Gli algoritmi del capitale (Ombre corte, 2014). Detto ciò, parlare di accelerazionismo aiuta ad approfondirne pregi e limiti; in particolare, verificare se si tratta di mera esercitazione accademica prodotta dalle propaggini americane del neo operaismo oppure di una pista di lavoro percorribile. La tesi può essere riassunta nei seguenti termini: per generazioni la sinistra si è illusa di abbattere il capitalismo e poi sostituirlo con un altro modello, oppure di depotenziarne la potenza distruttiva con la decrescita; per gli accelerazionisti si tratta di invertire il paradigma, cavalcare la velocità intrinseca alla macchina capitalistica per riconvertirla nel senso della liberazione dal lavoro salariato. Le macchine invaderanno sempre più lo spazio umano tanto da contenere in sé le condizioni di un suo totale rovesciamento. In luogo di alienazione e disumanizzazione, la partita si sposta sulla possibilità di una riconversione della macchina del capitale. Rischio determinismo ? Forse sì, ma non per le ragioni sostenute da Caffo, secondo cui gli accelerazionisti fonderebbero la loro teoria sul destino autodistruttivo che attenderebbe il capitalismo. La velocità di trasformazione, sostengono gli accelerazionisti, è intrinseca al capitale, ma può essere trasformata, grazie ad una piattaforma (comunista) in grado di re indirizzarne gli effetti. Solo a queste condizioni l'incubo può essere scongiurato. Un'utopia ingegneristico - politica legata alla storia del bolscevismo (Trotzski), ma non solo. Il concetto di deterritorializzazione elaborato da Deleuze- Guattari rimanda ad un'interpretazione della velocità come fattore liberatorio su cui si attivano le macchine desideranti. Dietro l'accelerazionismo c'è anche la tradizione operaista italiana, Negri in primis, che nel citato volume di Pasquinelli, non a caso, dimostra interesse per la teoria. E l'idea di un'accelerazione gioiosa rimanda a due elaborazioni asimovane: i robot positronici obbedienti alle tre leggi della robotica grazie alle quali si stabilisce un rapporto positivo tra uomini e macchine e la psicostoria, scienza in grado di prevedere, utilizzando modelli matematici, il comportamento umano e di lì imprimere un'accelerazione allo sviluppo delle società in grado di prevenire eventuali effetti negativi. La questione è aperta.
 

Romanzi italiani


Che Gilda Policastro sia una delle migliori voci della nuova narrativa italiana lo avevamo già intuito dai suoi due precedenti romanzi, Il farmaco (2010) e Sotto (2013). Cella (2015) ce ne dà una definitiva conferma, unitamente alle ormai antiche e tristi considerazioni sulla funzione della critica. Se si vuole capire qualcosa di un autore si verifichi se possiede una lingua, come da antica lezione continiana. E­' da lì che la visione del mondo rivela, o meno, coscienza letteraria. Policastro una sua lingua ce l'ha, eccome. Partendo da un incedere regolare, brevi periodi paratattici scanditi dalla punteggiatura, la scrittura indaga nei più nascosti interstizi della sofferenza. Soluzione prevalentemente sintattica ché il lessico, secondo un uso ormai invalso negli scrittori italiani, è adattato al registro medio.

Il dolore, connesso alle relazioni di potere sottese ai legami affettivi, è l'universo che il romanzo vuole esplorare. In Cella non c'è via d'uscita, né redenzione, i personaggi sono assorbiti entro una spirale negativa cui rimanda l'allegoria  punitiva riferita alla protagonista. La vicenda si svolge in una imprecisata provincia del sud in cui una giovane donna racconta il suo progressivo disfacimento: prima amante di un dongiovanni in carriera (un medico, figura centrale del notabilato meridionale) che presto si stanca di lei non prima di averla sottoposta ad una iniziazione a pratiche estreme, quasi escort con la complicità del suddetto eroe, madre di una figlia anaffettiva, amante occasionale del suo figlioccio, fino all'inevitabile depressione cui segue l'autoisolamento. Assistiamo ad una messa in scena dell'umiliazione che l'uso della prima persona non porta verso ripiegamenti intimistici o lirici, ma scandisce entro una narrazione a forte valenza argomentativa, frutto di uno sguardo vigile sul reale cui, a mio parere, non è estranea l'attività critica dell'autrice.

p.a.

G. Policastro, CellaMarsilio, € 14,00, Kindle 4,99.


 http://giotto.ibs.it/cop/cop.aspx?s=B&f=200&x=1&e=9788831722414&ww=2