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venerdì 31 dicembre 2010

La svolta del Riformista non è la fine dei riformisti

Oggi "Il Riformista" cambia direttore. E si prefigura un impegno più diretto del suo editore (Le Ragioni del socialismo).
Dall' ultimo editoriale di Antonio Polito, oltre ai motivi di questa svolta, si possono ancora trarre significativi temi di riflessione. Già Franco Paolinelli nel suo post su come "vendere il prodotto" per la Sinistra prefigura una delle difficoltà ormai storiche. Il riformismo non è un ideale prodotto di facile consumo e diffusione e richiede invece quelle doti che tutti lodano ma contemporaneamente scansano: pazienza, razionalità, intelligenza di dialogo, abilità di sintesi. Insomma il riformismo non è di moda. Polito ne individua una delle principali ragioni in un sistema politico populista (dove va scivolando il nostro paese) in cui anche parte dell'opposizione crede di potersi affermare a sua volta nella stessa logica populista. E su questo terreno vince uno solo, il migliore nella specialità: Mr. B.

Sinistra: come vendere il prodotto oggi ?

I Partiti politici e le organizzazioni simili sono giuridicamente ed economicamente strutture analoghe alle associazioni.
Valgono quindi tutti gli elementi ipotizzati per le associazioni. E’, quindi, possibile leggere i partiti come sistemi d’impresa, con una propria nicchia di mercato potenziale.

Analizzando nel dettaglio le componenti di scambio si possono valutare le seguenti ipotesi:

A) Perseguire l’obbiettivo sociale:
Si è investito nella funzione di rappresentanza degli interessi del blocco sociale ereditato dalla sinistra storica dal millennio passato, ovvero si è perseguito l’obbiettivo di garantire gli interessi economici dei soci esistenti e le posizioni del management, alle varie scale, ovvero della gerarchia.
Non si è, però, saputo candidare la sinistra a rappresentare un progetto di convivenza sociale per l’intera società in corso di evoluzione.

B) Produrre opportunità di aggregazione sociale:
La fruizione di questa funzione si è alquanto ridotta. Le variazioni delle condizioni culturali e sociali, dall’esplosione dei nuovi media, all’immigrazione, alla globalizzazione culturale hanno reso meno efficienti i meccanismi di aggregazione codificatisi nel dopoguerra, ancora vitali fino verso la fine del millennio scorso.
C’è da chiedersi se il management ha fatto del proprio meglio o meno per adeguare i servizi offerti alle condizioni socio-culturali sopraggiunte.

C) Produrre elementi di dignità ed identità per i soci:
Questa funzione, che in grande misura è sinergica con la precedente, è crollata. Oggi è più difficile di qualche decennio fa trovare chi si “mette il cappello” della sinistra, ovvero manifesta la propria adesione alla politica delle sue forze. Evidentemente non paga in termini d’immagine sociale quanto accadeva prima, quindi il consumo di questo servizio è crollato.
Va quindi valutato in che misura questa condizione sia dovuta alla modifica della domanda, ovvero quanto alla carenza dell’offerta.

L’offerta si è saputa adeguare alle mutate condizioni della domanda potenziale ?
L’ha saputa interpretare ?
Il management non ha forse dato per certa l’esistenza del proprio bacino di mercato potenziale senza preoccuparsi abbastanza del mutare delle condizioni sociali e culturali ?
Non ha forse sottovalutato le funzioni di aggregazione sociale e di identità, dando per certo che la funzione di difesa economica fosse l’unica di rilievo ?
Non si è forse alienato, così facendo, il mercato di chi non richiedeva servizi sindacali, ma richiedeva servizi d’identità ?
Non si è alienato, in questo modo il retroterra culturale che garantiva dignità e spessore a tutta la sinistra ?
Non ha forse contato troppo sulla capacità di aggregazione della piramide gerarchica, ovvero sul collante degli interessi che, con questo meccanismo, dovevano far fluire benefici materiali dal vertice alla base ?
Non ha forse dato troppo peso al confronto con le altre squadre, dandone troppo poco alla soddisfazione delle esigenze dei propri soci – consumatori ?, quindi al consolidamento della propria identità ?

F.P.

giovedì 30 dicembre 2010

Numeri e PD

I numeri aiutano a capire la realtà? Secondo noi sì. Viene da chiedersi perché il PD sia percepito come partito "vecchio". Una ragione c'è ed è molto diversa da quanto sostenuto dai rottamatori, per i quali la colpa sarebbe dei dinosauri ex comunisti. Un'indagine dell'Osservatorio del Nord ovest del 2008 documenta come il 66,3% dei disoccupati, il 68% dei giovani lavoratori, il 69,8% dei lavoratori autonomi preferisce votare per la destra. Al PD rimane la metà dei garantiti del settore pubblico e privato, rispettivamente il 46,4% e il 47,3% e la metà dei pensionati, il 48,1%. Gli occupati in italia sono 22.978.000(Ricolfi). A tempo pieno 14.627.000, a tempo parziale 2.273.000, 6.079.000 sono indipendenti (Istat). Il problema del PD è che riesce ad attirare una parte soddisfacente ma non maggioritaria dei garantiti e poco, molto poco dall'altra parte. I metalmeccnici in Italia sono 1.624.66 di cui il 40,8% costituito da impiegati (Federmeccanica). La Fiom ha 363.559 iscritti al 2009 (Fiom). Forse non è lì che il PD deve guardare se vuole risalire la china dei consensi.
(Dati, Istat, Fiom, Luca Ricolfi, "Illusioni italiche")

p.a.

lunedì 27 dicembre 2010

Sinistra e identità n. 4. La scena romana

Pubblichiamo una nuova puntata della riflessione di Franco Paolinelli.


In ogni comunità si esprimono pulsioni di interesse individuale e pulsioni di responsabilità che creano il necessario controllo degli interessi di ognuno. Per l’esistenza di una comunità di persone ed il suo sviluppo è necessario che l’equilibrio dinamico tra queste due pulsioni persista, senza superare determinati livelli di ognuna.
Quanto detto vale ad ogni scala, dalla famiglia, al globo. La città è una comunità di persone coesistenti, deve quindi avere un proprio equilibrio che trasforma in codice d’identità. Ogni città ha il proprio.
Le forze sociali che si fanno, o dovrebbero farsi carico della pulsione di responsabilità per la convivenza dovrebbero esprimere anche un codice d’identità che la motivi e la sostenga, dando dignità ed identità in cambio di controllo delle pulsioni d’interesse individuale.

Roma ha le sue modalità di esprimere egoismo e responsabilità, disordine ed ordine. E’, quindi, compito delle sue forze del polo della responsabilità offrire i servizi di aggregazione ed identità necessari a compensare le rinunce all’egoismo, ad ogni livello del vivere civile.

In altre parole, queste forze devono proporre il romano compatibile. Questi può, quindi, sposare un’identità ed un modus vivendi adeguato se chi ha la possibilità di crearlo e promuoverlo lo fa.
In alcune stagioni del passato recente è stato fatto. Le forze sociali e culturali hanno creato e dato spazio ad un modello di cittadino romano scanzonato, ma aperto al mondo, sveglio nella misura necessaria per permettersi la solidarietà, educato, ma con fantasia……..

Diversi elementi, da rintracciare sia nell’offerta che nella domanda d’identità, hanno compromesso l’alimentazione ed il consumo di questo modello, spingendo i cittadini romani verso la grettezza e la chiusura. Questa trasformazione è percepibile nei comportamenti dei privati cittadini come delle istituzioni, della burocrazia come delle imprese, con conseguente riduzione della qualità di vita di tutti noi.
Anzi, il vuoto delle istituzioni culturali e politiche è tale che c’è da stupirsi per la tenuta sociale del popolo romano.

Nel rilanciare il proprio ruolo le forze locali della responsabilità debbono, quindi, definire un modello di sviluppo romano ed proporre come la città, se ben governata, possa raggiungere un buon punto di equilibrio tra ordine e disordine, tale da garantire un ottima qualità di vita. Ma devono anche offrire un codice d’identità, ovvero devono dare dignità al cittadino romano che si fa carico del modello proposto, interpretando eventualmente a suo modo, le esigenze di rispetto ambientale, sociale, economico e culturale.
Si può, peraltro, definire il punto d’equilibrio del possibile modello “romano” in tutti gli elementi della realtà.
Ad esempio, lo si può elaborare in ambito urbanistico, nell’equilibrio, ancora difendibile, tra città e compagna, verde ed edificato.
Lo si può trovare e migliorare nella stessa burocrazia, premiando le nicchie di buona volontà, responsabilità e fantasia, anche quando devono interpretare od aggirare normative insulse e deprimenti.
Lo si può trovare e migliorare in ambito economico valorizzando la piccola e media impresa e dando maggiore libertà alle forze produttive che ci sono, ma sono schiacciate dalle difficoltà burocratiche e logistiche. Premiando, quindi, in termini economici e di dignità, chi fa, ovvero chi produce ricchezza per se e per la collettività.
Lo si può anche vedere e valorizzare nel possibile equilibrio tecnologico e sociologico tra modernità e conservazione, vivendo come privilegio della città la presenza in se di massime istituzioni laiche e religiose.
Lo si può, infine, esplicitare nell’equilibrio d’identità etnica, ancora esistente, ma a rischio, valorizzando la “romanità” stessa, come codice d’esistenza solido e per questo aperto, capace di accogliere e valorizzare, oggi come ieri, i contributi che le vengono dal mondo intero.

F.P.

giovedì 23 dicembre 2010

Zero de conduite

Videopoesia di Giulia e Paolo Allegrezza.

mercoledì 22 dicembre 2010

Tea party: razzisti più che liberisti

Come abbiamo scritto tempo fa (vedi "Tea party e liberali di casa nostra" del 7 novembre) i tea party non sono affatto espressione di una nuova stagione liberista che attraverserebbe gli Usa in reazione al socialismo obamiano. Tra di loro abbondano i sostenitori dei movimenti della supremazia bianca. Ne parla il Fatto quotidiano in un articolo di Roberto Festa pubblicato il 22 dicembre. I loro toni ricordano i nostri leghisti, un misto di tradizionalismo e xenofobia. La destra liberista in tempo di crisi non ha il volto democratico e un po' guascone del reaganismo, è il ricettacolo delle paure e dell'odio (un buon motivo per non lasciargli il tema della libertà). Dietro la maschera vaporosa di Sarah Palin spuntano i cappucci del vecchio Klan. Nel video allegato Al Sharpton sottolinea come i repubblicani debbano prendere le distanze da certi toni razzisti.

p.a.

martedì 21 dicembre 2010

Sinistra e identità n. 3. Quale progresso ?

Pubblichiamo una riflessione di Franco Paolinelli su un tema a tutti noi caro.


Le comunità, finché non interviene una catastrofe, vivono un processo dinamico di ampliamento che implica crescita numerica delle loco componenti, sviluppo tecnologico, adattamento umano, incremento di organizzazione, inclusione, migliore distribuzione del benessere. Questa dinamica è stata chiamata progresso.

Il cuore dell’essere sociologicamente di sinistra è nel saper vedere le esigenze della comunità oltre le proprie, quindi nel sostenerne il progresso e nel partecipare all’edificazione di un assetto sociale che valorizzi le opportunità disponibili.

Oggi quanto detto implica, tra gli altri aspetti, il sostegno agli strumenti tecnologici che non comportano rischi per le comunità, alla creazione delle stesse alle scale coerenti con i mezzi tecnologici disponibili, quindi all’inclusione delle realtà ambientali, dei popoli, delle culture e delle nazioni che i mezzi tecnologici mettono in relazione e coinvolgono nello sviluppo……

La sinistra, fin’ora si è identificata con un’ottica progressista, ma oggi questa posizione non è facile,
Infatti, in primo luogo, la scala e l’idea stessa di assetto sociale possibile non è evidente, la società utopica è difficile da immaginare ed identificare. Non è affatto chiara la sua fisionomia tecnologica, culturale, sociale e politica. Questa società non si vede ancora, ne quindi va di moda, non paga proporla, ne in termini di immagine, ne di posizione politica. Non c’è ancora.
Inoltre, la scala della lotta politica è ancora nazionale, mentre l’assetto possibile e necessario è globale. L’insieme delle forze umane che dovrebbero crearlo è però, ancora frammentato nelle molteplici realtà locali.

Peraltro, alle scale nazionali, molte delle realtà sociali la cui inclusione era il fine dei progressisti di ieri, oggi difendono interessi costituiti e questo chiedono di fare ai loro rappresentanti.
Le loro organizzazioni tradizionali si trovano, quindi, nella condizione contraddittoria di richiamarsi a valori progressisti e difendere al contempo interessi consolidati, spesso corporativi.
La confusione d’identità e la difficoltà a proporre alle categorie rappresentate un progetto d’inclusione aperto alla scala necessaria rende oggi le “azioni” di queste forze poco appetibili.

Gli interessi d’inclusione dovrebbero essere espressi da immigrati che ancora non hanno capacità di dialogo con le forze politiche, ne questa sanno ancora dialogare con le loro comunità.
Tanto meno possono esprimere consenso le realtà ambientali che l’espansione incontrollata coinvolge nello sviluppo delle comunità umane.

La lungimiranza necessaria a vedere l’evolvere fisiologico del processo di costruzione dell’assetto possibile, quindi, la tenacia e la pazienza necessarie a sopportarne i tempi, conservando l’impegno della sua edificazione, non sono, quindi, facili da mettere in atto. Coerentemente l’immagine del progressista non va di moda quanto è andata in decenni addietro, non paga in termini d’immagine, quindi, non interessa a chi sposa determinati comportamenti solo se gli offrono un profitto di opportunità e d’identità.

Di conseguenza, oggi, fare una politica progressista oggi non è affatto facile, indipendentemente dall’abilità di rappresentanza messa in atto dai conduttori delle forze politiche che si richiamano ai quei valori.
I risultati elettorali recenti evidenziano, però, che inseguire la Lega e le Destre sul terreno populista e delle cordate d’interesse non produce un terreno sociale solido.

Ma, sono dell’opinione che la crescita di consapevolezza di questa difficoltà possa essere d’aiuto nel coinvolgere chi può vedere i processi e può contribuire all’edificazione del progresso possibile. Evidenziare le condizioni attuali, accettarne il carico e diffondere la consapevolezza delle oggettive difficoltà esistenti nel costruire la convivenza potrà forse nobilitare l’immagine di chi si presta al compito e delle relative organizzazioni.

Ma sarà la sicurezza pacata e lungimirante delle tesi di pochi pensanti ad attrarre i molti di più che cercano un modello da imitare, certamente non sarà la rissa isterica a riportare attenzione alla sinistra ed ai suoi valori.
Sarà, quindi, la superiorità intellettuale e morale a catalizzare consenso ed a contribuire a costruire la società possibile, poiché il Governo, quando c’è e dove c’è, è sempre espressione dei migliori, degli aristos, sicuri, tenaci, non interessati al profitto meschino, con visioni di lungo respiro.

Avviare il processo di acquisizione di consapevolezza darà le basi perché chi ha questa forza e queste caratteristiche accolga e sposi il progetto, che deve essere mitico, di costruire la società possibile. L’uomo, o la donna, giusti, arriveranno, quindi, solo quando questo processo sarà avviato, e non è denunciando le schifezze dell’uno o dell’altro degli antagonisti politici che si avvia la consapevolezza, che ci si pone in alto. Anzi, denunciando l’orrore dell’altro si esprime il bisogno di marcare la differenza. Ma tanto è urlata, tanto più risulta dubbia. Agli occhi del cittadino si finisce per confermare che la politica è tutta uno schifo.
Peraltro, alla scala del cosmo, se pur l’uomo avrà ucciso la vita sul pianeta terra, non sarà assolutamente accaduto niente di rilevante. E’ molto probabile che ci siano tanti altri pianeti in cui la vita sta germogliando.

F.P.

domenica 19 dicembre 2010

Verso la manifestazione di mercoledì degli studenti

Gli studenti medi scendono in piazza a fianco dei loro colleghi universitari e dei ricercatori nel disperato e temo vano tentativo di fermare una riforma che hanno la sensazione rovinerà il loro futuro, probabilmente hanno ragione ma altrettanto probabilmente la scarsa consapevolezza che dimostrano delle proprie ragioni rischia di travolgerli e di aprire la strada ad un tragico riflusso.
La sensazione forte che mi rende teso e perplesso è che questo movimento rischi di essere vittima di una mancanza di razionalizzazione delle intuizioni, di una tendenza ad essere superficialmente (non uso questo termine in senso negativo ma proprio nel senso dello stare in superficie) collegati con quanto accade, vivendolo con intensità pre-cosciente.
Questo è forse stato sempre tipico dei giovani ma oggi mi sembra potenziato dai moderni mezzi e linguaggi della comunicazione.
Il nemico dal quale i ragazzi del movimento si devono guardare non è quindi l’estremismo di alcune frange che si autocondannano alla marginalità, né il velleitarismo democratico di chi pretende in termini pre-politici che il governo tenga conto delle proprie esigenze reali, né ancora le strumentalizzazioni che da parte del mondo politico potrebbero essere messe in atto, in positivo o in negativo è lo stesso.
Il loro vero nemico è l’incapacità di tradurre in discorso la pluralità delle spinte che li caratterizza, dandogli una forza complessiva di redefinizione dei rapporti generazionali e politici.
In realtà questa potrebbe essere la loro forza a patto però che sappiano reinventare la comunicazione e trovino un settore del mondo degli adulti che in questo li sostenga e li appoggi.
Occasione imperdibile per la sinistra, sapremo farlo?
Perché non cominciare fornendo alla prossima manifestazione un servizio d’ordine autorevole e pacifico che definisca lo spazio in cui lasciarli liberi di agire?
Potrebbe essere la metafora su cui fondare, in maniera scevra da ogni paternalismo e da ogni interesse di bottega, un rapporto importante per chi vede nella ridefinizione delle pratiche sociali e politiche la strada maestra di quella che un tempo si chiamava rivoluzione ed oggi, che siamo tutti moderati, potremmo chiamare rigenerazione sociale.

F.P.

giovedì 16 dicembre 2010

Il PD non é messo così male

Dopo il voto di fiducia a Berlusconi il governo di responsabilità nazionale voluto dal Pd non è più proponibile. Su questo ha ragione FR, anche se a leggere certi peana viene il sospetto che su Marte ultimamente ci sia un certo affollamento. In cosa consisterebbe mai la vittoria di Berlusconi? Nella possibilità di perseguire un’alleanza con l’Udc che Casini non ha nessuna intenzione di sottoscrivere? O nell’arrivare al voto di primavera con tre poli e un’impossibile vittoria al Senato? Certo, rimane la possibilità del blitz al Senato per modificare la legge elettorale, ma a quel punto sarebbe sicura la nascita della coalizione democratica da Vendola a Fini.

Il Pd non appare messo così male. Deve, però, attrezzarsi per le elezioni in primavera, consapevole dell’impossibilità di alleanze elettorali con Casini o con l’eventuale Terzo polo. A questo punto si pone un problema: come bloccare l’Opa di Vendola sul Nuovo Ulivo salvando il profilo riformista su cui è nato il Partito democratico? (Considerando che le primarie sono inevitabili).

La campagna elettorale del Nuovo Ulivo dovrà chiarire che non è in gioco la possibilità di affrontare i problemi strutturali del paese, per i quali si dovrà attendere un secondo tempo. La posta in gioco sarà la salvezza dal definitivo scivolamento della democrazia italiana nel populismo. Riforma elettorale, una finanziaria che archivi Tremonti, da scrivere peraltro sotto dettatura europea, conflitto di interessi, poi di nuovo al voto. Su questo percorso grava, tuttavia, un ostacolo non da poco. Si chiama candidato leader.

A chi affidare il compito di sconfiggere Vendola alle primarie e giocarsela col Caimano senza finire col restare stritolato nella doppia morsa? Assodato che Bersani non è competitivo né con l’uomo di Arcore, né con il governatore pugliese, serve una mossa che sparigli. Individuare un candidato dall’alto profilo istituzionale e in grado di parlare all’elettorato moderato. Uno che per competenza e serietà riconosciute appaia all’altezza della crisi che stiamo attraversando e possa dialogare con il Terzo polo. Uno spendibile anche per il Quirinale, dopo aver salvato la repubblica. Perché non guardare dalle parti di Bologna?

Paolo Allegrezza

pubblicato anche su thefrontpage

martedì 14 dicembre 2010

CONTRO PIACENTINI

Un intervento di Antonino Saggio sull'architetto del fascismo.

In questo clima già abbastanza deprimente di per sé, tra Università assediate dall’esterno e vergognosamente incapaci di alcuna seria autoriforma, politica nazionale in attesa di nuovi rimandi per garantire poteri già logori, mafie e camorre strapotenti, di tutto si sentiva il bisogno eccetto che di questo convegno su Piacentini. Che, ricordiamolo è stato l’alfiere di una politica urbanistica e architettonica all’insegna del trasformismo, del monumentalismo, della pesantezza classicheggiante in ossequio ai poteri forti da qualunque parte (liberali, fascisti, democristiani) si affacciassero lungo il suo mezzo secolo di attività. Architetto e urbanista inoltre di scarsa originalità (il suo capolavoro è considerato l’Eur di Roma), è stato il grande affossatore della generazione dei razionalisti a cominciare da Giuseppe Terragni e poi proprio nell’Eur con l’estromissione di Giuseppe Pagano e Luigi Piccinato.

Tra mille convegni interessanti perchè proprio questo? Perchè ora? I convegni sono sempre politici, diceva Zevi. E adesso più che mai. Rivendichiamo l’Antipiacentinismo di Ridolfi, di Albini, di Gardella, di Terragni, di Ricci dei più vitali interpreti della cultura architettonica italiana. Rivendichiamo l’Antipiacentinismo delle Torri di Viale Eritrea, del Mausoleo delle Fosse Ardeatine, delle Unità di abitazioni di Libera! Rivendichimo l’Antipiacentinismo dell’Asilo Sant’Elia!

Antonino Saggio

domenica 12 dicembre 2010

In fuga dalla questione morale

Vito Mancuso in una ricca e articolata recensione del recente libro di Roberta De Monticelli, "La questione morale", affronta il difficile rapporto tra questione morale e consenso democratico. Idealmente ci si deve comportare in modo etico, ma essere giusti non ha fascino e un programma che prometta serietà e giustizia finisce per perdere.
In Italia in modo particolare...
( Illuminante la risposta della prof. De Monticelli ad una recensione critica di Marcello Veneziani su "Il Giornale", dal sito phenomenologylab.eu )

Così fuori dal tempo l'aforisma di Enrico Berlinguer?
«La questione morale esiste da tempo, ma ormai essa è diventata la questione politica prima ed essenziale perché dalla sua soluzione dipende la ripresa di fiducia nelle istituzioni, la effettiva governabilità del paese e la tenuta del regime democratico.»

Certe cose si possono pensare, dire forse, con prudenza, ma far intravedere che si possano anche sistematicamente mettere in pratica è follia.
pc

P.S. - Per chi volesse approfondire segnalo l'intervista di Scalfari a Berlinguer del 28 luglio 1981

sabato 11 dicembre 2010

HAIKU PROJECT

Haiku in three parts: sicily, art, peace. Poetry can be an expression of nature and reflection.

giovedì 9 dicembre 2010

La letteratura dell'osceno


Aldo Nove, con "La vita oscena" ha scritto un libro che ci mancava. Mai finora la letteratura italiana aveva rappresentato con tanto nitore il nichilismo contemporaneo, la mercificazione delle relazioni su cui sembra impastarsi quest'ultima stagione della post contemporaneità. Merito di Nove è di avere rifiutato il facile bellettrismo consolatorio di tanti suoi contemporanei in nome di un realismo straniato e sperimentale che deve molto alla lezione di Balestrini. Tanto per fare nomi, una strategia letteraria opposta a quella dei Piperno o delle Mazzantini, incapaci di andare oltre gli scontati sentieri del romanzo borghese. "La vita oscena" è un romanzo di formazione che narra la discesa agli inferi condita di alcol, droga, sesso compulsivo di un giovane io narrante. Siamo nell'Italia degli anni '70 - 80, identica a quella di oggi. In un paesaggio urbano indifferente e disumanizzato in cui la funzione del comunicare ha perso ogni potenzialità. Il protagonista si inabissa in un percorso autodistruttivo che lo porta a sperimentare l'annullamento totale di sé nel consumo. Droga e sesso diventano così i due idoli di una progressiva discesa nell'abisso dell'incoscienza. Fino alla bellissima scena finale della rinascita dal martoriato ventre materno di un doppio nel cui "sguardo vidi tutta l'ansia tutto l'orrore tutta la speranza tutto l'amore tutta la rabbia tutta l'impazienza tutto il desiderio che nel corso degli anni avevano attraversato il mio cuore". C'è molta pornografia nel libro. Raccontata come una sorta di potente narcotico in grado di lenire le fitte dell'angoscia. E' un tema tutt'altro che raro nella narrativa italiana contemporanea. Dall'intrattenimento frivolo di una Melissa P., ai rifacimenti sadiani (quanto sterili) della Santacroce, alla pornografia come allegoria del consumo e della perdita di senso di Scarpa (Kamikaze d'occidente)e, appunto, di Nove. Un tema che però necessita di un forte filtro stilistico in grado di decontestualizzarlo, secondo la lezione delle avanguardie novecentesche. Da tutto ciò, dalla coraggiosa disamina del presente condotta con la forza "aperta" e dialogica dell'allegoria può ripartire una nuova ondata della letteratura italiana definitivamente riscattata tanto dal richiamo dell'idillio quanto da quelle, sempreverdi, della fuga dal mondo.
p.a.

lunedì 6 dicembre 2010

Efficienza o devozione?

Una riflessione sul comportamento quotidiano nel mondo del lavoro (ma si potrebbe estendere la riflessione ad altri campi): siamo portati a ritenere prioritario raggiungere obiettivi programmati in un tempo ragionevole preventivato o mostrarsi pronti a garantire obbedienza e devozione a capi e responsabili di turno?
A quanto pare, in Italia, l'endemico sottodimensionamento delle capacità organizzative e l'eccessiva propensione a far prevalere aspetti emotivi e interessi personali sulla necessità di mettere a punto processi efficienti generano dinamiche frustranti e, in definitiva, infelicità; cioè proprio il contrario di ciò che, a chiacchiere, ci sta a cuore!
Perciò il lavoratore ideale è maschio, devoto all'azienda, privo di interessi sociali o impegni familiari. Un esempio illuminante in una testimonianza di Stefania Baucé su l'Unità .
E un dubbio: un apparente punto di forza della nostra talvolta bacchettona, familistica, mammona e maschilista italianità non sarà forse anche l'insopportabile palla al piede della nostra classe dirigente e di ogni serio tentativo riformatore in direzione di un'efficiente e solidale convivenza democratica?
p.c.

giovedì 2 dicembre 2010

Luca e il capitalismo italiano

Piccola riflessione sparse sulle classi dirigenti italiane e sulla memoria (scarsa) del bel paese.

Dal 1955 al 1963 l’Eni editò una rivista culturale diretta da Attilio Bertolucci. Si chiamava Il Gatto selvatico. Nel frattempo, il servizio documentari era affidato ad Ermanno Olmi che poté realizzare così le sue prime opere. In quegli stessi anni l’Olivetti pubblicava Comunità e Finmeccanica Civiltà delle macchine. Quest’ultima diretta da un genio irregolare, il poeta-ingegnere Leonardo Sinisgalli. Nel mondo olivettiano lavoravano personaggi come Volponi, Ottieri, Spagnoletti. Ancora, Raffaele Mattioli dalla Comit trovava il tempo di finanziare la pubblicazione della collana dei classici italiani con il marchio Ricciardi.

Mattei o Mattioli non erano anime belle, erano capi azienda tosti e spregiudicati. Ma avevano, come direbbe Vendola oggi, una visione. Dagli anni ‘70 nessuno nell’industria italiana ha più avuto simili ambizioni. Forse il declino italiano nasce da lì, dal cinismo che portò ai vertici del capitalismo italiano personaggi come Romiti. Fino alla degenerazione emersa nei primi anni ‘90 e culminata, non a caso, con l’affaire Enimont. In tutto questo Berlusconi non c’entra nulla, mentre sarebbe curioso sapere cosa pensa di questa “crisi di sistema” il candidato in pectore del terzo polo. Quel Luca C.d.M. che qualche frequentazione di quegli ambienti l’ha pure avuta. E ancora se ritiene che il capitalismo italiano nel quale lui ha lavorato per decenni abbia sempre fatto i conti con il mercato e con i suoi oneri. Se pensa che sia sempre stato all’altezza del suo compito oppure abbia lucrato sul rapporto con la politica. In assenza di queste risposte il “nuovo” rischia di nascere ancora una volta sotto le vesti del trasformismo.
Come il Crispi sapientemente affrescato nel bel film di Martone.
p.a.

pubblicato anche su thefrontpage.it