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lunedì 28 marzo 2011

Libertà: una definizione

Quella che segue è un breve estratto dalla riflessione di Isaiah Berlin sulla libertà (Libertà, Feltrinelli 2010, p. 33), un utile punto di partenza nella definizione di un liberalismo interessato alla piena realizzazione della persona. Segue una parte di un documentario BBC

Il senso in cui io uso il termine libertà non comporta soltanto l'assenza di frustrazione (che si può ottenere sopprimendo i desideri), ma l'assenza di ostacoli alle scelte e alle attività possibili, l'assenza di ostacoli lungo le strade che una persona può decidere di percorrere. Una libertà di questo tipo non dipende in ultima analisi dal fatto che io desideri o no di percorrere una certa strada, o fino a dove desidero farlo, ma da quante porte mi sono aperte, dalla misura in cui sono aperte e dalla loro importanza relativa nella mia vita (anche se a rigore può essere impossibile misurare queste cose quantitativamente). La misura della mia libertà politica o sociale è data dall'assenza di ostacoli non solamente alle mie scelte effettive, ma anche a quelle potenziali - ostacoli al mio fare una certa cosa, se per caso scelgo di farla.

Isaiah Berlin




venerdì 25 marzo 2011

Laici, liberali, socialisti


giovedì 24 marzo 2011

Riflessione sulla lettera a Meneceo di Epicuro. Lezione di laicità ?


In quanto la filosofia si interroga su ciò che è il Bene per l'uomo e sulle condizioni della sua Felicità, essa ha riflettuto anche sulla Paura, passione che ha animato, anima l'uomo, condizionandone l'azione, il pensiero, le scelte.
Nel corso del tempo le paure dell'uomo mutano. In ragione delle sue conoscenze, del cambiamento del mondo in cui vive, egli si sente minacciato da pericoli diversi.

La Lettera a Meneceo di Epicuro, che visse tra il 341 a.C. e il 270 a.C., dunque in età ellenistica, vuole essere una sorta di formula per liberare l'uomo dalle paure più comuni: la paura degli dei, la paura della morte, la paura del futuro.
Liberato da queste paure l'uomo raggiunge la tranquillità dell'animo, la Felicità.

Epicuro fa riferimento ad un'idea di Felicità alla quale è estraneo ogni riferimento alla dimensione politica e sociale dell'uomo, la sua Etica è “a-politica”, in quanto svolta con lo sguardo fermo alla vita interiore dell'uomo. Epicuro persegue un fine individualistico della tranquillità dell'animo e di Felicità.

Senz'altro questa impostazione è legata al momento storico- politico in cui la filosofia di Epicuro nasce.

Epicuro opera in età ellenistica (III a.C.- I d.C.), apre la sua scuola “Il Giardino” ad Atene nel 306 a.C.:

  • Conquista della Grecia da parte di Alessandro Magno: si spalanca un mondo vastissimo e multiforme, che porta con sé la fine delle forme istituzionali dell'Ellade.
  • Morte di Alessandro e frantumarsi del suo impero.
  • Creazione dei regni ellenistici.
  • Alla democrazia assembleare ellenica si sostituiscono monarchie assolute di stampo orientale.
  • L'uomo greco non è più cittadino ma suddito, non è più l'artefice della vita pubblica.
  • Decadenza della polis.
  • La vita politica non ha più il suo centro entro i confini delle città-stato ma si svolge nei grandi centri cosmopoliti.
  • Trasformazioni economiche-sociali: indebolimento del ceto medio: la ricchezza si concentra nelle mani dei pochi asserviti al nuovo potere.
  • Avvenimenti di portata mondiale si intrecciano a beghe di corte e locali.

Si genera un clima di incertezza, il destino politico dell'uomo, il vivere sociale sembra in balia del caso o comunque di forze su cui l'azione del singolo o del gruppo cittadino non può avere alcuna influenza. Non si ha più fiducia nella possibilità di razionalizzare, di dare ordine alla vita sociale.
Lo stato offre ancora al cittadino un luogo in cui vivere ma non più il contenuto della sua vita.
Lo sguardo dell'uomo si sposta sulla vita interiore.

La filosofia dell'epoca rispecchia questo mutamento, e rintraccia un suo compito nell'andare incontro alle inquietudini dell'individuo, nel dare un messaggio di saggezza e serenità capace di guidare il vivere quotidiano dell'individuo che non ha più questa guida nella sua partecipazione alla vita della polis. L' uomo chiede alla filosofia una visione del mondo funzionale alla sua vita, utile alla sua condotta.

L'etica di Epicuro risponde a questo nuovo bisogno, propone la formula per liberare l'uomo dall'inquietudine in cui la storia lo ha trascinato, assecondando questa tendenza a cercare dentro di sé, lontano dal tumultuoso disordine esterno, la soluzione per liberarsi dalle sue paure.
Le vicende politiche servono ad Epicuro solo per riconoscere i mali da cui il saggio deve preservare il suo animo per conquistare un'imperturbabile serenità.

1) La Lettera a Meneceo si apre con un'esortazione sia al giovane che al vecchio a filosofare, in quanto la filosofia è riconosciuta come lo strumento che conduce alla salute dell'anima e, dunque, alla felicità.
La vita del vecchio si volge più al passato e quella del giovane di più al futuro. E' la filosofia a far sì che il primo non si perda nel rimpianto, suggerendogli di godere dei beni trascorsi. I piaceri, i beni trascorsi sono una certezza della quale bisogna essere grati alla vita.

Allo stesso modo è la filosofia a placare l'ansia del giovane, liberandolo dalle paure e da quei turbamenti e desideri che possono renderlo infelice, consentendogli così di non temere l'avvenire.

2) La paura degli dei: Epicuro non nega la loro esistenza, anzi la considera evidente, tant'è che considera ognuno in grado di considerarne l'essenza in base alla nozione innata che ne abbiamo. Il divino è eterno e beato, è perfetto, pertanto del tutto estraneo alle nostre vicende. Concepire gli dei animati nei nostri confronti, mossi da sollecitudini e ansie significherebbe considerarli non beati, il che sarebbe contrario alla loro perfezione.

3) La morte, altro oggetto di paura, non è nulla per noi. Quando noi siamo non c'è la morte. Quando c'è la morte non siamo più noi. Il non vivere non può essere per noi né un bene né un male, perché bene e male, identificandosi con il piacere e il dolore presuppongono la sensazione, laddove il non vivere, la morte è invece assenza di sensazione. Anche come evento futuro la morte non può essere considerata un male perché non si può considerare male nell'attesa ciò che non è un male quando si dà, quando è presente. Superata la paura della morte, il saggio può godere serenamente la vita, vivere saggiamente, cioè senza avere paura della sua mortalità.

4) L'etica di Epicuro si basa sulle passioni, è la passione che ci consente di distinguere il bene e il male. Il bene coincide con il piacere e il male con il dolore, l'uno è da ricercare l'altro da fuggire. I piaceri però hanno valore diverso, e spetta al saggio, al filosofo metterne in evidenza una discriminazione qualitativa. Vi sono desideri naturali e desideri vani, ovvero desideri ai quali non corrisponde alcun oggetto di soddisfazione nella realtà, in natura, “mulini a vento” : gli onori, il desiderio di potenza, di ricchezze.

I desideri naturali, a loro volta, si distinguono in necessari e non necessari. Occorre limitare la soddisfazione ai soli desideri naturali e necessari, in quanto gli altri sono insaziabili, privi di limite e dunque incapaci di condurre al piacere.
I desideri che dobbiamo soddisfare sono quelli che, soddisfatti, corrispondono a quel piacere che è la salute del corpo e la tranquillità dell'animo.

I desideri naturali e necessari hanno un limite nell'assenza di dolore; il piacere di cui parla Epicuro non è il piacere dei gaudenti e dei dissoluti, non corrisponde al processo di soddisfazione del bisogno, ma al bisogno soddisfatto, non ad un piacere in movimento, che è destinato ad essere infinito, ma alla stasi. Il massimo del piacere è posto non là dove il desiderio è più intenso, ma dove esso si è placato. Si raggiunge il massimo del piacere, la felicità quando non c'è più desiderio, bisogno, mancanza, dolore.

5) Chi è consapevole di tutto questo, si è liberato dalle false paure, sa quale è il piacere da perseguire, ha raggiunto la saggezza. Tale saggezza ha una funzione strumentale, è una sorta di ars vivendi, la regola per condurre una vita piacevole che comporta limitare i nostri desideri a quelli elementari, naturali, al necessario per non avere più bisogni, dolore. In questo modo, siamo anche liberi da esigenze per il soddisfacimento delle quali ci esponiamo all'azione della fortuna, alla volontà altrui, a falsi condizionamenti. In questo restringere la propria esistenza ai bisogni primari, trarre il proprio piacere dall'essenziale, in questa semplificazione della propria esistenza che non aggiunge niente al semplice esistere, l'uomo si mostra saggio, può accettare la sua mortalità senza tormento, e vivere senza dolore, trovando in se stesso la ragione della sua felicità.

Paola Cimino

martedì 22 marzo 2011

Il progetto per la crescita del PD. Troppo timido ?

Il Partito democratico ha presentato ieri il suo "progetto alternativa della crescita". Un documento di 92 pagine che tenta di dare una risposta alla lunga stagnazione italiana (quindici anni, secondo il governatore Draghi). Ne proponiamo un riassunto. (Il testo integrale)

Riduzione delle tasse:

- sul lavoro dipendente con un taglio della prima aliquota Irpef dal 23 al 20%
- sulle imprese con graduale abolizione dell'Irap e detassazione del reddito reinvestito in azienda.

Riduzione del debito pubblico e stimolo della crescita:

- creazione di un'agenzia europea per il debito
- introduzione di una tassa europea sulle transazioni finanziarie che finanzi l'innovazione in campo ambientale
- adeguamento delle retribuzioni europee ad uno standard comune da regolare sull'aumento della produttività
- incentivo all'occupazione femminile in Italia tale da portare in Italia 3 milioni di donne occupate in più in un decennio.

Nuovo Welfare:

- bonus bambini da 3000 annui per figlio
- borse di studio da 10.000 euro per studenti meritevoli e meno abbienti.

La domanda a questo punto é: sono misure sufficienti a risollevare un paese con il terzo debito mondiale, parti consistenti del territorio nazionale in mano alla criminalità, un livello di evasione da quarto mondo, un welfare estraneo alle nuove generazioni ?

Tempo fa abbiamo fatto alcune simulazioni di patrimoniale dalle quali emergeva la difficoltà per i partiti di intraprendere una strada del genere. Tuttavia, è un argomento sufficiente per metterla in archivio ?

sabato 19 marzo 2011

Parlamentari, aumenti sottobanco

Sull'Espresso di qualche settimana fa c'era un articoletto che spiega che recentemente il Parlamento ha votato all'UNANIMITA' e senza astenuti (ma và?!) un aumento di stipendio per i parlamentari pari a circa € 1.135,00 al mese.

Inoltre la mozione e stata camuffata in modo tale da non risultare nei verbali ufficiali.


STIPENDIO Euro 19.150,00 AL MESE

STIPENDIO BASE circa Euro 9.980,00 al mese

PORTABORSE circa Euro 4.030,00 al mese (generalmente parente o familiare)

RIMBORSO SPESE AFFITTO circa Euro 2.900,00 al mese

INDENNITA' DI CARICA (da Euro 335,00 circa a Euro 6.455,00)
TUTTI ESENTASSE
+

TELEFONO CELLULARE gratis

TESSERA DEL CINEMA gratis

TESSERA TEATRO gratis

TESSERA AUTOBUS - METROPOLITANA gratis

FRANCOBOLLI gratis

VIAGGI AEREO NAZIONALI gratis

CIRCOLAZIONE AUTOSTRADE gratis

PISCINE E PALESTRE gratis

FS gratis

AEREO DI STATO gratis

AMBASCIATE gratis

CLINICHE gratis

ASSICURAZIONE INFORTUNI gratis

ASSICURAZIONE MORTE gratis

AUTO BLU CON AUTISTA gratis

RISTORANTE gratis (nel 1999 hanno mangiato e bevuto gratis per Euro 1.472.000,00). Intascano uno stipendio e hanno diritto alla pensione dopo 35 mesi in parlamento mentre obbligano i cittadini a 35 anni di contributi (41 anni per il pubblico impiego !!!)

Circa Euro 103.000,00 li incassano con il rimborso spese elettorali (in violazione alla legge sul finanziamento ai partiti), più i privilegi per quelli che sono stati Presidenti della Repubblica, del Senato o della Camera. (Es: la sig.ra Pivetti ha a disposizione e gratis un ufficio, una segretaria, l'auto blu ed una scorta sempre al suo servizio)

La classe politica ha causato al paese un danno di 1 MILIARDO e 255 MILIONI di EURO.

La sola camera dei deputati costa al cittadino Euro 2.215,00 al MINUTO !!

Far circolare.......si sta promovendo un referendum per l' abolizione dei privilegi di tutti i parlamentari............ queste informazioni possono essere lette solo attraverso Internet in quanto quasi tutti i massmedia rifiutano di portarle a conoscenza degli italiani......



Giovanna Natoli Forzano

venerdì 18 marzo 2011

Liberale e socialista: una proposta per la sinistra italiana

L'appello di Massimo Teodori e Luigi Covatta, di cui qui riportiamo il testo definitivo, propone ciò che la sinistra italiana non è mai riuscita a realizzare: una credibile forza liberale e socialista in grado di candidarsi alla guida del governo e alla riforma delle istituzioni. In fondo è questa, dai tempi di Craxi, la questione che rimane sul campo e che neanche la nascita del PD è riuscita a risolvere. Ora, dopo tante disillusioni, si pensi all'ancora fresca ferita della Rosa nel Pugno, ci si può riprovare. Il punto dirimente ci sembra essere quello della disponibilità a mescolare le singole identità. Abbandonando definitivamente patriottismi di partito, piccole rendite, ansie di protagonismo che, più degli effettivi contrasti politici, hanno segnato nella storia repubblicana la condanna minoritaria patita dai fautori della "terza forza". Ciò nondimeno, di fronte alla crisi della seconda repubblica e all'afasia riformista palesata dalla sua principale forza, rilanciare un'ipotesi liberale e socialista per la sinistra appare, più che un nobile tentativo, un obbligo.

p.a.

L'Appello.

mercoledì 16 marzo 2011

Test Invalsi: critiche alla Gelmini, ma niente demagogia

Riceviamo e volentieri pubblichiamo un'analisi, a nostro parere lucida, sul tema della valutazione del sistema scolastico. Condividiamo, in particolare, l'apprezzamento finale per Martha Nussbaum, una delle più originali pensatrici liberali contemporanee.


A fronte della marea montante anti Invalsi vorrei articolare meglio il mio pensiero dopo l’exploit che ieri ho affidato al web. Ma andiamo con ordine.

1. Il quadro normativo – Con la legge delega 53/03 e successivo decreto legislativo 286/04 è stata attribuita all’Invalsi il compito di effettuare, tra l’altro, “verifiche periodiche e sistematiche sulle conoscenze e abilità degli studenti”. Si tratta di verifiche finalizzate al “progressivo miglioramento e armonizzazione della qualità del sistema d’istruzione”. Si tratta, comunque, di operazioni valutative nettamente distinte dalle verifiche finalizzate alla “valutazione periodica e annuale degli apprendimenti e del comportamento degli studenti”, attribuite alla competenza dei docenti. Con tale norma si è ritenuto opportuno avviare anche nel nostro Paese quella valutazione del sistema nazionale di istruzione che è già in atto, e da anni, in quasi tutti i Paesi dell’Unione europea e in quelli ad alto sviluppo. Se alle istituzioni scolastiche, in virtù della loro autonomia, è affidata la competenza di progettare e realizzare interventi di educazione, istruzione e formazione finalizzati a realizzare gli obiettivi nazionali del sistema di istruzione (dpr 275/99, art. 1), ne consegue che spetta al potere centrale verificare se tali obiettivi sono di anno in anno raggiunti e quali correttivi, eventualmente, occorra apportare. Si è trattato di una svolta non indifferente, avviata in seguito al conferimento di poteri e attribuzioni dal potere centrale agli organi periferici (alle Regioni, agli Enti locali e alle scuole), di cui alla legge delega 59/97 e al novellato Titolo V della Costituzione (legge Cost. 3/01). Se non si avverte questo profondo cambiamento di prospettiva, risulterà anche difficile comprendere le ragioni dell’intervento dell’Invalsi sulle istituzioni scolastiche autonome: autonome, sì, autoreferenziali non più!

2. Il test – Il test è uno strumento di indagine finalizzato a rilevare dati oggettivi, quindi, in effetti sono strumenti “poveri” rispetto ad altri strumenti di rilevazione degli apprendimenti: i reattivi, ad esempio, o certe tipologie di questionari, o conversazione mirate o elaborati scritti, i cui esiti sono tutti diversi gli uni dagli altri e richiedono criteri valutativi assolutamente diversi rispetto a quelli dei test: chiedere quanto fa due più due è un quesito test (la risposta è solo una); chiedere di riferire sull’etica nicomachea o sull’ultimo film di Almodòvar o sul 150° anniversario dell’Unità nazionale, con tutti gli argomenti pro e contro che sono oggi sotto gli occhi di tutti, non sono quesiti test . Ed è ovvio che, se la valutazione esercitata da un insegnante consistesse solo nella somministrazione di test, avrei qualche dubbio sulla sua competenza valutativa. I test Invalsi hanno una finalità limitata e precisa: verificare se finalità, obiettivi, competenze, se si vuole, di cui alle Indicazioni nazionali e alla Linee guida che il Miur ha pubblicato per i diversi ordini di scuola, in quanto deputato dalla stessa Costituzione ad emanare le “norme generali sull’istruzione”, sono di volta in volta raggiunti o meno e in quale misura. E’ questa un’invasione di campo? Assolutamente no! Ripeto: alle singole istituzioni scolastiche spetta di valutare gli apprendimenti, giorno dopo giorno, periodicamente, annualmente; all’Invalsi – o comunque a qualsiasi ente terzo valutativo – spetta di valutare la tenuta e l’andamento del sistema. Si tratta di ambiti di indagine diversi e complementari.

3. L’attendibilità delle prove – I test Invalsi sono stati prodotti, e sono costantemente prodotti, nel corso degli anni sulla base di prove che in effetti provengono dalle stesse scuole. Non c’è nulla di inventato negli uffici di Villa Falconieri! Per quanto riguarda i test che verranno proposti alle seconde classi dell’istruzione secondaria di secondo grado, sono stati effettuati i relativi tryout, per cui la garanzia della loro adeguatezza, affidabilità e attendibilità è molto elevata. La corrispondenza del test con gli insegnamenti effettuati nelle singole scuole e classi non va ricercata sui singoli contenuti, ma sulla corretta utilizzazione, da parte degli alunni, di “quei” contenuti appresi in classe, per risolvere i “quesiti” e i “casi” che i test – o meglio, le prove – proporranno. Non ci sarà nessuna sovrapposizione né alcuna prevaricazione da parte dell’Invalsi nei confronti delle singole scuole e dei singoli insegnanti. Ripeto: si tratta di piani diversi di indagine e di rilevazione.

4. La valutazione degli insegnanti – L'esito dei test Invalsi non ha nulla a che vedere con la valutazione degli insegnanti ed è provocatorio accreditare una tesi del genere. Gli esiti delle prove saranno consegnati alle singole scuole e il liceo “Mamiani” non saprà nulla di quanto è avvenuto all’istituto tecnico “Einstein”. La valutazione degli insegnanti è altra cosa né le prove Invalsi possono costituirne un precedente, in quanto è la natura stessa della rilevazione che nulla ha a che vedere con la valutazione degli insegnanti, discorso tutto da impiantare e sul quale abbiamo, a tutt’oggi, ancora scarsi elementi, anche a livello di ricerca.

5. L’obbligatorietà – Le prove Invalsi sono obbligatorie per legge. Il fatto che la nota ministeriale la richiami è puramente indicativo: è la norma che fa testo: si vedano, oltre alle norme citate al punto 1, la direttiva triennale n. 74 del 15 settembre 2008 e la direttiva n. 67 del 30 luglio 2010. Quegli insegnanti che non ottempereranno a tale adempimento si assumeranno una responsabilità, di fronte ai loro alunni e alle famiglie, prima che di fronte all’amministrazione.

6. E ora vengo al nonostante!!! – Sottolineo con forza il fatto che il Miur avrebbe dovuto adoperarsi in modo più mirato per preparare scuole ed insegnanti alle prove Invalsi. Da un lato c’è indubbiamente il fatto che molti insegnanti – ed anche molti dirigenti, purtroppo – non sono solleciti ad aggiornarsi costantemente sulla normativa e su ciò che Miur e Invalsi pubblicano sui rispettivi siti. L’autonomia non significa il faidate! Significa responsabilizzarsi in prima persona per accedere a quelle “norme generali sull’istruzione” di cui il Miur ha competenza e responsabilità. Se sui test c’è l’ignoranza di cui sono testimoni le veline che molte scuole stanno producendo, c’è anche una responsabilità dell’amministrazione che sulla valutazione da oltre dieci anni a questa parte non ha attivato nulla! Anzi, il ritorno ai voti e l’enfasi sul cinque in condotta – pardon, comportamento – non ha fatto altro che sferrare un duro colpo a quella “cultura della valutazione” che fin dagli anni Ottanta, con altre amministrazioni, abbiamo avviato, anche se con tanta fatica! E ancora: quale carico di lavoro spetterà alle segreterie e ai docenti per la somministrazione delle prove? Al limite potremmo anche dire: se della valutazione degli insegnamenti sono responsabili gli insegnanti nelle loro classi, perché della valutazione di sistema non si fa carico direttamente l’Invalsi, con la sua organizzazione e con il suo budget? Ovviamente è un discorso che lascia il tempo che trova! E che, comunque, si sarebbe dovuto avviare da quando l’Invalsi è stato istituito! Siamo alle solite: l’amministrazione assegna compiti, anche impegnativi, ma non assegna risorse! E innesta la guerra tra poveri! Avremo Dsga contro Ds, insegnanti contro ricercatori Invalsi e a pagare sono sempre i nostri ragazzi!

7. Conclusione – La cosa che più mi addolora di tutta questa vicenda è la grande approssimazione culturale e docimologica che leggo nelle veline che di scuola in scuola i nostri docenti si stanno passando! Mi chiedo: dove sono quegli insegnanti che una volta si battevano perché la scuola migliorasse i suoi strumenti? Che esigevano un’amministrazione più sollecita? Che studiavano per conto loro come e perché migliorare le loro attività! Che senso ha oggi rifiutarsi di fronte ad un adempimento il cui fine è solo quello di verificare insieme che cosa stiamo facendo nelle aule, dov’è che facciamo bene, dov’è che sbagliamo… Un intervento Invalsi, con tutta la sua limitatezza – possiamo anche ammetterlo: è la prima volta che l’Invalsi entra nella secondaria superiore – ci sollecita, però, a riflettere, a confrontarci, al limite anche a dire che tutti gli item sono sbagliati… Ebbene, non è una occasione per discutere, per crescere? E’ forse meglio che ciascuno nel chiuso della propria aula faccia muro contro muro, mentre i ragazzi sempre meno credono alla scuola e il mondo intorno a noi sta impazzendo? Oggi è il 10 marzo: abbiamo due mesi per riflettere e per decidere al meglio! E lo dice uno che per la Gelmini e per la Mastrocola non ha alcuna simpatia!!! Ma per la Nussbaum tantissima! E non dite: chi è questa donna?


Roma, 10 marzo 2011

Maurizio Tiriticco

sabato 12 marzo 2011

Tutta colpa del '68

Il declino della scuola pubblica ? Tutta colpa di Don Milani, del '68 e di Rodari. La psicologia progressista avrebbe introdotto dalla metà degli anni '60 quei germi di democrazia, dialogo, egualitarismo responsabili del passaggio dal rigore al lassismo. Dopo i ripetuti interventi (e, ahimè, libri) della Mastrocola, oggi tocca ad un filosofo, Tullio Gregory, riproporre la questione sullepagine del Corriere della sera. Si lamenta la scomparsa dei "maestri", sostiene Gregory, docenti in grado di comunicare ai giovani esperienze di lettura, un sapere fatto di date e dati, di esercizi di memoria, disciplina nell'apprendimento. La pedagogia progressista avrebbe distrutto tutto questo consacrando il diritto dello studente all'ignoranza, demonizzando la valutazione, legittimando il rifiuto di ogni insegnamento normativo, in primis la scrittura in lingua italiana. Che Don Milani fosse un maestro niente affatto lassista è testimoniato dalle testimonianze e dagli studi sulla scuola di Barbiana, dove orari e ritmi di insegnamento erano incomparabilmente superiori a quelli di qualsiasi scuola media pubblica o privata. Che nelle affollate assemblee del '68 circolassero libri e si fosse tutt'altro che digiuni di sapere è cosa nota. Lo testimonia l'esplosione della saggistica nel mercato editoriale di quegli anni e il complessivo incremento dei consumi culturali giovanili. Se poi passiamo al lassismo della scuola italiana di oggi, forse bisognerebbe ricordare i dati sulle bocciature nelle prime classi delle superiori e dei conseguenti abbandoni (soprattutto nel sud). Ma il loro rimpianto è per la scuola ordinata e solida pre '68 o per quei prestigiosi, e sparuti, licei presenti in ogni città italiana? Lì docenti motivati e stimati svolgevano la loro missione educativa. Chi scrive ha frequentato uno di quei licei e appartiene ad una generazione che ha potuto conoscere quella scuola e quei docenti, ancora sulla breccia negli anni '70. Francamente, nessuna nostalgia. Si trattava nella maggior parte dei casi di uomini e donne demotivati, chiusi nel fortino di un sapere archeologico e mai condiviso, alieni dal dialogo e dall'esperienza, requisiti indispensabili dell'apprendimento. A me quelle aule ricordano i "queruli ricinti" di cui parla Parini nel Giorno, dove al posto dei pianti per le staffilate somministrate dai maestri scorrevano fiumi di noia. Quella scuola non è più riproducibile, per due motivi fra tutti: non vi sono più quegli studenti, né il sapere è trasmissibile con quegli strumenti. L'apprendimento, ci piaccia o no, oggi avviene attraverso le molte strade fornite dalla società dell'informazione. La scuola per poter svolgere il suo ruolo non può negarle, né riproporre un microcosmo da novella accademia dell'Arcadia, mentre fuori tutto cambia. Se vogliamo continaure ad insegnare Ariosto e Tasso, come è giusto fare, dobbiamo porci il problema di come riuscire a farli interloquire con i nostri ragazzi. Non limitarci a reclamare il ritorno all'ordine del buon tempo antico. Niente di strano. Si tratta di utilizzare le risorse della didattica e della pedagogia. Sulle quali ogni buon docente dovrebbe interrogarsi prima di pronunciare un solo verso di Ariosto o Tasso. E allora vuoi vedere che i tanto vituperati Don Milani e Rodari possonio tornarci utili ?

paolo allegrezza

venerdì 11 marzo 2011

ALTRO STATUS: LE COMPONENTI SIMBOLICHE ATTUALI E POTENZIALI DEL PRODOTTO SOSTENIBILE E DI AGRICOLTURA SOCIALE

Il consumatore, quale che sia il suo livello di reddito, consuma per appagare le proprie esigenze, biologiche o simboliche, per soddisfare diritti, reali o presunti, per garantirsi le condizioni che pensa siano migliori per la sua sicurezza.
Investe, inoltre, una quota parte del suo reddito in valori di status, che siano capi d’abbigliamento, kit tecnologici, mezzi di locomozione, alimenti di qualità, attività.

Consuma anche perché ha pulsioni imprescindibili di fare ciò che suppone sia trendy fare, di ottenere ciò che ottengono gli altri del suo campione od immaginario sociale, quindi di apparire “a la page” e presente nel contesto e nel modo “giusto” per lui, di comunicare la propria condizione ed aspirazione sociale, di manifestare le proprie scelte esistenziali…….

In tutti o quasi i suoi consumi introduce una parte di comunicazione, ma alcuni di questi, corrispondenti a specifiche esigenze simboliche, determinano gravi e gravissimi impatti sull’ambiente e sulla comunità.

In ambito agricolo – alimentare i prodotti bio, D.O.C., D.O.P. etc...….. hanno costi necessariamente superiori a quelli realizzati senza controlli, se prodotti in Italia, ed ancor di più se realizzati in aree del mondo con costi di produzione molto più bassi e norme molto meno rigide. Sono, quindi, prodotti di lusso.

La comunicazione, nel corso degli anni, ha saputo, però, incorporare nei prodotti agricoli di qualità contenuti di sicurezza e di status. Infatti, il consumante bio - doc è convinto di comprare, a proprio beneficio:
Sicurezza / qualità alimentare (non entro in merito alla realtà di questo fatto);
Valori di immagine (competenza nella scelta, capacità di spesa, attenzione ambientale, associazione con paesaggi fisici e socio-culturali di qualità ……).

La sua soddisfazione aumenta col crescere del valore aggiunto incorporato e le ormai frequentissime iniziative di promozione e pubblicità mirano a consolidare e alimentare questa condizione.

Queste produzioni sono utili all’ambiente sia nella fase di coltivazione, sia in quella di consumo: implicano, infatti, che il produttore abbia attenzione ambientale e paesaggistica e possono deviare una parte delle spese dei consumatori da simboli di status più impattanti.

La stessa analisi, sebbene in misura diversa, può essere applicata anche ad altri consumi di lusso:
Nella filiera dell’abbigliamento ci possono essere prodotti che associano qualità ambientale e qualità del prodotto (lane…… ?);
Nella filiera automobilistica, il mondo emergente dei mezzi a motore elettrico, potrà acquisire questo tipo status;
I gioielli “antichi” incorporano di storia, di villaggio antico, che, implicitamente, si associa a qualità socio-culturale, quindi ambientale;

In altre parole, l’attenzione ambientale, come la stessa libertà dai codici di massa, sono un lusso, quindi, il lusso può portare con se un messaggio di attenzione ambientale. Infatti, le sezioni più attente dell’élite sociale già seguono questi codici comportamentali.

Esiste, inoltre, un mondo, già oggi definito “economia sociale”, che incorpora valori ambientali e sociali.

Ne fanno parte, a pieno titolo, le imprese agricole, artigianali e di giardinaggio, che incorporano ed occupano soggetti con difficoltà socio-sanitarie e sono riconosciute come tali dalla legge ed il mondo delle produzioni del terzo mondo, di cui è necessario sostenere lo sviluppo.
Per estensione, però, ne può far parte un vasto mondo di ricerca, di sperimentazione e non sempre codificato e riconosciuto, che opera sia in ambito agricolo, che artigianale, che terziario, con responsabilità ed il cui fare ricerca è in se elemento di attenzione sociale ed ambientale.

I prodotti di quest’economia sociale, nella maggioranza dei casi che io conosco, non sono, per costi di produzione e modalità distributive, più economici ed accessibili dei corrispondenti prodotti commerciali.
Ma a questi prodotti, allo stato attuale, non è riconosciuto un valore di status come ai prodotti sopra citati che associano lusso ed ambiente.

Ad esempio, al prodotto agricolo bio e socio, secondo me, allo stato attuale, il consumatore medio può riconoscergli i valori di sicurezza, qualità e status, sopra descritti se il prodotto è bio – d.o.c., ma la sua natura specifica di prodotto di filiera sociale non porta con sé un valore aggiunto specifico.

I pochi consumatori affezionati attuali, per lo più appartenenti alla borghesia intellettuale, animata da responsabilità sociale ed ambientale, acquistano i prodotti dell’economia sociale sulla base di pulsioni di solidarietà, nelle quali ci può essere sia una componente di consapevolezza e scelta politica, sia una di semplice carità.

A partire da questa percezione, nasce, spesso, nel consumatore l’idea di un prodotto sociale sia o debba essere “povero”, che, quindi, debba essere posto sul mercato a costi minori dello standard di riferimento, cosa economicamente non possibile, se non per le imprese sostenute, in modi diversi, dall’assistenza pubblica.

Perché le filiere di economia sociale, agricole e non solo, siano remunerate e l’acquisto interessi una platea più vasta di consumatori e sia percepito come conveniente è necessario, invece, che un qualche potenziale valore aggiunto del prodotto sociale sia creato, esplicitato e divulgato, in modo che sia collettivamente riconosciuto e diventi “trendy”.

Per ottenere ciò si deve fare in modo che il consumatore, acquistando il bene agro-alimentare, artigianale bio – doc e sociale, possa gratificare il suo ego sia con la qualità, sia con la possibilità di manifestare uno status, in altre parole, che quel “lusso” sia riconosciuto. In altre parole, che il costo della responsabilità sociale ed ambientale sia un lusso riconosciuto, di cui il consumatore possa sfoggiare il cappello.

Questo status, in alternativa al tipo prettamente “consumistico”, non può che essere di tipo intellettuale, manifestabile con messaggi tipo i seguenti:
So che esiste (ho informazione);
Conosco e capisco le problematiche affrontate con l’economia sociale (ho intelligenza, cultura e sensibilità);
Ritengo questo tipo di percorsi di recupero-reinserimento, creazione d’impresa….. più efficienti per gli utenti e per la collettività rispetto all’assistenza passiva (faccio parte dell’elite responsabile che conosce i problemi sociali, ma liberale quanto basta per spingere per un’economia sana e solida).

Il consumatore potrà, inoltre, essere informato dell’idea che segue:
I prodotti principali delle filiere dell’economia sociale sono la terapia, il reinserimento, la formazione, la sperimentazione. Le imprese, quindi, non hanno la necessità economica di “spingere” sulla quantità realizzata. Possono, quindi, adottare tecniche sane (bio, no O.N.G, recupero) senza risentirne in termini di bilancio. Il prodotto sociale è, quindi, implicitamente di qualità.

Tanto maggiore sarà la capacità delle singole imprese sociali e del loro insieme nel creare un mercato che conosca e condivida queste opportunità e le usi per la propria comunicazione, tanto più i consumatori riterranno i prodotti che li incorporano convenienti, tanto potrebbe e dovrebbe aumentare l’autonomia delle imprese dal sostegno pubblico.

In altre parole, tanto maggiore sarà l’efficienza delle imprese nel produrre l’insieme di prodotti, di servizi socio – terapeutico - culturali e di messaggi, tanto più saranno competitive sul mercato, tanto più saranno sane, tanto più saranno libere dalla dipendenza dell’assistenzialismo, che sia nella forma del contributo o del mercato protetto.

Secondo me, quando questo mondo avrà raggiunto questa libertà e potrà stare sul mercato, anche pubblico, senza corsie privilegiate, si potrà dire che gli Enti e le Organizzazioni che l’hanno sostenuto hanno fatto il proprio, giusto, lavoro di volano socio – economico; che si è dimostrata la possibile sinergia nella produzione di servizi e prodotti; che si è, quindi, avviata un’economia valida e non si è costruita l’ennesima sacca di spesa pubblica assistenziale che incrementa il debito.

Se questo, invece, sarà risultato, chi su quella sinergia ha scommesso ed investito non potrà certo essere soddisfatto.

E’, quindi nell’ottica di esplicitare, con un messaggio di estrema sintesi, il valore aggiunto del prodotto dell’economia sociale che la SAP ha lanciato l’idea del marchio “ALTRO STATUS” e ne ha registrato il dominio in rete.

Chi desse un sostegno alla creazione dello “status” sopra descritto, contribuirebbe anche alla conquista degli obbiettivi ambientali e sociali dell’economia sociale.

Franco Paolinelli

ALTRO STATUS: LE COMPONENTI SIMBOLICHE ATTUALI E POTENZIALI DEL PRODOTTO SOSTENIBILE E DI AGRICOLTURA SOCIAL

Il consumatore, quale che sia il suo livello di reddito, consuma per appagare le proprie esigenze, biologiche o simboliche, per soddisfare diritti, reali o presunti, per garantirsi le condizioni che pensa siano migliori per la sua sicurezza.
Investe, inoltre, una quota parte del suo reddito in valori di status, che siano capi d’abbigliamento, kit tecnologici, mezzi di locomozione, alimenti di qualità, attività.

Consuma anche perché ha pulsioni imprescindibili di fare ciò che suppone sia trendy fare, di ottenere ciò che ottengono gli altri del suo campione od immaginario sociale, quindi di apparire “a la page” e presente nel contesto e nel modo “giusto” per lui, di comunicare la propria condizione ed aspirazione sociale, di manifestare le proprie scelte esistenziali…….

In tutti o quasi i suoi consumi introduce una parte di comunicazione, ma alcuni di questi, corrispondenti a specifiche esigenze simboliche, determinano gravi e gravissimi impatti sull’ambiente e sulla comunità.

In ambito agricolo – alimentare i prodotti bio, D.O.C., D.O.P. etc...….. hanno costi necessariamente superiori a quelli realizzati senza controlli, se prodotti in Italia, ed ancor di più se realizzati in aree del mondo con costi di produzione molto più bassi e norme molto meno rigide. Sono, quindi, prodotti di lusso.

La comunicazione, nel corso degli anni, ha saputo, però, incorporare nei prodotti agricoli di qualità contenuti di sicurezza e di status. Infatti, il consumante bio - doc è convinto di comprare, a proprio beneficio:
Sicurezza / qualità alimentare (non entro in merito alla realtà di questo fatto);
Valori di immagine (competenza nella scelta, capacità di spesa, attenzione ambientale, associazione con paesaggi fisici e socio-culturali di qualità ……).

La sua soddisfazione aumenta col crescere del valore aggiunto incorporato e le ormai frequentissime iniziative di promozione e pubblicità mirano a consolidare e alimentare questa condizione.

Queste produzioni sono utili all’ambiente sia nella fase di coltivazione, sia in quella di consumo: implicano, infatti, che il produttore abbia attenzione ambientale e paesaggistica e possono deviare una parte delle spese dei consumatori da simboli di status più impattanti.

La stessa analisi, sebbene in misura diversa, può essere applicata anche ad altri consumi di lusso:
Nella filiera dell’abbigliamento ci possono essere prodotti che associano qualità ambientale e qualità del prodotto (lane…… ?);
Nella filiera automobilistica, il mondo emergente dei mezzi a motore elettrico, potrà acquisire questo tipo status;
I gioielli “antichi” incorporano di storia, di villaggio antico, che, implicitamente, si associa a qualità socio-culturale, quindi ambientale;

In altre parole, l’attenzione ambientale, come la stessa libertà dai codici di massa, sono un lusso, quindi, il lusso può portare con se un messaggio di attenzione ambientale. Infatti, le sezioni più attente dell’élite sociale già seguono questi codici comportamentali.

Esiste, inoltre, un mondo, già oggi definito “economia sociale”, che incorpora valori ambientali e sociali.

Ne fanno parte, a pieno titolo, le imprese agricole, artigianali e di giardinaggio, che incorporano ed occupano soggetti con difficoltà socio-sanitarie e sono riconosciute come tali dalla legge ed il mondo delle produzioni del terzo mondo, di cui è necessario sostenere lo sviluppo.
Per estensione, però, ne può far parte un vasto mondo di ricerca, di sperimentazione e non sempre codificato e riconosciuto, che opera sia in ambito agricolo, che artigianale, che terziario, con responsabilità ed il cui fare ricerca è in se elemento di attenzione sociale ed ambientale.

I prodotti di quest’economia sociale, nella maggioranza dei casi che io conosco, non sono, per costi di produzione e modalità distributive, più economici ed accessibili dei corrispondenti prodotti commerciali.
Ma a questi prodotti, allo stato attuale, non è riconosciuto un valore di status come ai prodotti sopra citati che associano lusso ed ambiente.

Ad esempio, al prodotto agricolo bio e socio, secondo me, allo stato attuale, il consumatore medio può riconoscergli i valori di sicurezza, qualità e status, sopra descritti se il prodotto è bio – d.o.c., ma la sua natura specifica di prodotto di filiera sociale non porta con sé un valore aggiunto specifico.

I pochi consumatori affezionati attuali, per lo più appartenenti alla borghesia intellettuale, animata da responsabilità sociale ed ambientale, acquistano i prodotti dell’economia sociale sulla base di pulsioni di solidarietà, nelle quali ci può essere sia una componente di consapevolezza e scelta politica, sia una di semplice carità.

A partire da questa percezione, nasce, spesso, nel consumatore l’idea di un prodotto sociale sia o debba essere “povero”, che, quindi, debba essere posto sul mercato a costi minori dello standard di riferimento, cosa economicamente non possibile, se non per le imprese sostenute, in modi diversi, dall’assistenza pubblica.

Perché le filiere di economia sociale, agricole e non solo, siano remunerate e l’acquisto interessi una platea più vasta di consumatori e sia percepito come conveniente è necessario, invece, che un qualche potenziale valore aggiunto del prodotto sociale sia creato, esplicitato e divulgato, in modo che sia collettivamente riconosciuto e diventi “trendy”.

Per ottenere ciò si deve fare in modo che il consumatore, acquistando il bene agro-alimentare, artigianale bio – doc e sociale, possa gratificare il suo ego sia con la qualità, sia con la possibilità di manifestare uno status, in altre parole, che quel “lusso” sia riconosciuto. In altre parole, che il costo della responsabilità sociale ed ambientale sia un lusso riconosciuto, di cui il consumatore possa sfoggiare il cappello.

Questo status, in alternativa al tipo prettamente “consumistico”, non può che essere di tipo intellettuale, manifestabile con messaggi tipo i seguenti:
So che esiste (ho informazione);
Conosco e capisco le problematiche affrontate con l’economia sociale (ho intelligenza, cultura e sensibilità);
Ritengo questo tipo di percorsi di recupero-reinserimento, creazione d’impresa….. più efficienti per gli utenti e per la collettività rispetto all’assistenza passiva (faccio parte dell’elite responsabile che conosce i problemi sociali, ma liberale quanto basta per spingere per un’economia sana e solida).

Il consumatore potrà, inoltre, essere informato dell’idea che segue:
I prodotti principali delle filiere dell’economia sociale sono la terapia, il reinserimento, la formazione, la sperimentazione. Le imprese, quindi, non hanno la necessità economica di “spingere” sulla quantità realizzata. Possono, quindi, adottare tecniche sane (bio, no O.N.G, recupero) senza risentirne in termini di bilancio. Il prodotto sociale è, quindi, implicitamente di qualità.

Tanto maggiore sarà la capacità delle singole imprese sociali e del loro insieme nel creare un mercato che conosca e condivida queste opportunità e le usi per la propria comunicazione, tanto più i consumatori riterranno i prodotti che li incorporano convenienti, tanto potrebbe e dovrebbe aumentare l’autonomia delle imprese dal sostegno pubblico.

In altre parole, tanto maggiore sarà l’efficienza delle imprese nel produrre l’insieme di prodotti, di servizi socio – terapeutico - culturali e di messaggi, tanto più saranno competitive sul mercato, tanto più saranno sane, tanto più saranno libere dalla dipendenza dell’assistenzialismo, che sia nella forma del contributo o del mercato protetto.

Secondo me, quando questo mondo avrà raggiunto questa libertà e potrà stare sul mercato, anche pubblico, senza corsie privilegiate, si potrà dire che gli Enti e le Organizzazioni che l’hanno sostenuto hanno fatto il proprio, giusto, lavoro di volano socio – economico; che si è dimostrata la possibile sinergia nella produzione di servizi e prodotti; che si è, quindi, avviata un’economia valida e non si è costruita l’ennesima sacca di spesa pubblica assistenziale che incrementa il debito.

Se questo, invece, sarà risultato, chi su quella sinergia ha scommesso ed investito non potrà certo essere soddisfatto.

E’, quindi nell’ottica di esplicitare, con un messaggio di estrema sintesi, il valore aggiunto del prodotto dell’economia sociale che la SAP ha lanciato l’idea del marchio “ALTRO STATUS” e ne ha registrato il dominio in rete.

Chi desse un sostegno alla creazione dello “status” sopra descritto, contribuirebbe anche alla conquista degli obbiettivi ambientali e sociali dell’economia sociale.

Franco Paolinelli

giovedì 10 marzo 2011

Maestri dimenticati. Mario Paggi e l'azionismo liberaldemocratico

Pubblichiamo un breve estratto dell'articolo di Paolo Allegrezza sul fondatore di "Stato moderno", pubblicato sul numero di marzo di mondoperaio.

Chissà se oggi, a distanza di dieci anni che sembrano un’era geologica, Walter Veltroni riproporrebbe il pantheon della sinistra presentato al congresso torinese dei DS, nel gennaio 2000.Molto probabilmente no, se non altro perché la spregiudicata sintesi culturale lì tentata non è certo riuscita ad imporsi “come narrazione”, per dirla alla Vendola. Piuttosto che cercare un’improbabile sintesi tra Berlinguer, DonMilani, Lennon e Kennedy sarebbe stato più saggio volgere lo sguardo a casa nostra. A quel novecento italiano appena concluso, più specificamente alla galassia laico - azionista che di contaminazioni fra culture politiche ne aveva tentate, eccome.
A dire il vero la considerazione e le citazioni nei riguardi del filone giellista dell’azionismo non erano mai mancate nel dibattito dei postcomunisti. Figure come Foa e Galante Garrone, provenienti dall’esperienza di Giustizia e Libertà, o Bobbio, giunto al Partito d’Azione sulla scia del liberalsocialismo di Calogero e Capitini, godettero di vasto e meritato riconoscimento. Ma la vicenda del P.d.A. non è, come la storiografia più recente ha ampiamente sottolineato, risolvibile nel solo ambito del socialismo liberale. Spicca, nelle varie riscoperte del riformismo novecentesco successivo al 1989, il disinteresse della sinistra italiana nei riguardi del filone liberaldemocratico dell’azionismo, espresso da figure come Ugo La Malfa, Adolfo Tino, Carlo Ludovico Ragghianti, e soprattutto dal piccolo gruppo di Stato Moderno, la rivista di Mario Paggi edita tra il ‘44 e il ‘49. Eppure, volendo andare alla ricerca di incunaboli e possibili padri nobili del partito democratico, i liberaldemocratici, utilizzando un’espressione nella quale probabilmente molti di loro non si sarebbero riconosciuti, avrebbero pieno titolo ad essere considerati.
Sulle pagine de Lo Stato moderno si discusse a lungo della nascita in Italia di un partito democratico, ed anzi nella mancata evoluzione in quel senso del P.d.A. fu individuata la causa del suo fallimento. La stessa polemica che vide coinvolti Lussu e la componente giellista da una parte, e dall’altra la destra azionista (termine che necessiterebbe di ulteriori specificazioni poiché si trattava di uno schieramento tutt’altro che privo di differenziazioni, come dimostrano le diverse scelte compiute da Paggi e LaMalfa all’indomani del congresso azionista del marzo ‘46) ha più di un interesse per i riformisti italiani che sessanta anni dopo sono impegnati nella costruzione di un partito democratico. Perché era posta lì una questione che ancora oggi appare aperta: quale identità per un partito riformista collocato nel campo delle forze progressiste che ambisca a svolgere una funzione maggioritaria? Paggi, nel ‘44, sintetizzò la questione nella felice formula che richiamava al dilemma azionista tra grande partito democratico o piccola eresia socialista (novembre 1944). Sottintendendo la necessità di emanciparsi dall’ipoteca marxista e classista che identificava allora la sinistra socialista e comunista. Dopo il 1989, e dopo la conclusione dell’esperienza della sinistra clintoniana e blairiana, non è più tempo di eresie, né di modelli forti cui fare riferimento. La domanda da porre oggi riguarda piuttosto quale partito democratico si voglia costruire.

(Continua la lettura.)

lunedì 7 marzo 2011

Un buon documento su Roma

Riceviamo e pubblichiamo un buon documento su Roma che sarà presentato sabato alle ore 10 al cinema Farnese.

Promotori:
Sabrina Albanesi, Vito Consoli, Amedeo Fadda, Maurizio Fontana, Paolo Menichetti, Ivan Novelli, Sergio Papa, Carlo Patacconi, Diego Pedron, Luigi Tamborrino, Peppe Taviani.

PACTA SUNT SERVANDA
Uno dei connotati che più caratterizza la politica romana degli ultimi decenni, pare essere una malsana interpretazione della locuzione latina del pro tempore connessa all'esercizio di governo. Infatti capita sempre più spesso che a cambi di maggioranza corrispondano tutta una serie di atti in contraddizione con il percorso amministrativo faticosamente intrapreso fino ad allora, ed è consuetudine il ritrovarsi, sempre e di nuovo, all'anno zero, come se gli anni trascorsi in dibattiti, confronti, scontri e sintesi riguardassero altri luoghi e altre comunità.
Questa strana percezione della presenza momentanea alla guida delle varie giunte poggia, da una parte, sull'idea di poter disporne in maniera piena ed esclusiva (in verità il diritto utilizza questi termini per definire l'istituto della proprietà) della cosa pubblica, e dall'altra, sull'esercizio del ruolo in senso fin troppo letterale, ovvero mettendo molta attenzione nel trasferire ai posteri quei problemi e quelle decisioni complesse onde evitare potenziali danni d'immagine (basti pensare a quei contenziosi che rischiano di far fallire l'economie capitoline che si tramandano nell'avvocatura del comune dai padri ai figli...).
Vuoi per il meccanismo dell'elezione diretta del Sindaco che nel tempo ha portato il confronto democratico a perdere il merito a vantaggio dei posizionamenti di potere, vuoi per la minor autorevolezza della classe dirigente, fatto sta che sempre più si assiste a governi del territorio improvvisati, inadeguati e legati solo a logiche di appartenenze.
Eppure Roma negli anni si è dotata di fondamentali atti che, stratificandosi, ne definiscono l'assetto odierno : La variante di salvaguardia, la delibera comunale di perimetrazione dei parchi romani (Del 39/95), la variante delle certezze e la sua controdeduzione, La legge Regionale 29/97 istitutiva delle Riserve Naturali Regionale e gli Enti Parco, la legge Regionale 24/98 in materia di vigenza dei Piani Paesistici Regionale, il Nuovo Piano Regolatore Generale e la sua copianificazione, l'adozione di giunta regionale del Piano Territoriale Paesistico Regionale.
Ma nonostante ciò ogni qualvolta un nuovo inquilino sale al Campidoglio si dà per scontato, non la coerenza con gli atti deliberati antecedentemente come vorrebbe un sano diritto amministrativo, ma bensì proprio l'esatto contrario: prevale la necessità di dimostrare di saper modificare gli atti prodotti dagli sconfitti, così da rinvigorire quella discontinuità sempre enunciata ma che poi, a ben vedere, raramente si applica nei confronti dei reali potentati capitolini.
Anche per questo uno dei primi atti che ogni nuovo sindaco non si nega mai è il Bando in Deroga alla normativa vigente: Rutelli puntò alle periferie con i Programmi di Recupero Urbano (art 11), Veltroni guardò alla ricollocazione della rendita fondiaria con le Aree di Riserva, mentre oggi Alemanno con l'Housing Sociale apre ad una nuova stagione di edificazione nell'agro romano e di cambi di destinazione d'uso di ambiti non residenziali.
Questo atteggiamento primordiale nella gestione del territorio allontana la capitale giorno dopo giorno dalle altre città europee e scardina quell'immaginario collettivo di una Roma sostanzialmente definita nel suo assetto generale e nelle sue invariabili, a cui dovrebbe far seguito un piano strategico di area metropolitana.
La banalizzazione del racconto e della gestione dell'attività di governo, determina poi un imbarbarimento dei costumi dando vita alla percezione che tutto è permesso fuorchè la condivisione di regole certe.

(Continua la lettura.)

venerdì 4 marzo 2011

ALTRO STATUS: LE COMPONENTI SIMBOLICHE ATTUALI E POTENZIALI DEL PRODOTTO SOSTENIBILE E DI AGRICOLTURA SOCIALE

Un altro capitolo della riflessione di Franco Paolinelli su consumo e status sociali.

Il consumatore, quale che sia il suo livello di reddito, consuma per appagare le proprie esigenze, biologiche o simboliche, per soddisfare diritti, reali o presunti, per garantirsi le condizioni che pensa siano migliori per la sua sicurezza.
Investe, inoltre, una quota parte del suo reddito in valori di status, che siano capi d’abbigliamento, kit tecnologici, mezzi di locomozione, alimenti di qualità, attività.

Consuma anche perché ha pulsioni imprescindibili di fare ciò che suppone sia trendy fare, di ottenere ciò che ottengono gli altri del suo campione od immaginario sociale, quindi di apparire “a la page” e presente nel contesto e nel modo “giusto” per lui, di comunicare la propria condizione ed aspirazione sociale, di manifestare le proprie scelte esistenziali.

In tutti o quasi i suoi consumi introduce una parte di comunicazione, ma alcuni di questi, corrispondenti a specifiche esigenze simboliche, determinano gravi e gravissimi impatti sull’ambiente e sulla comunità.

In ambito agricolo – alimentare i prodotti bio, D.O.C., D.O.P. etc...….. hanno costi necessariamente superiori a quelli realizzati senza controlli, se prodotti in Italia, ed ancor di più se realizzati in aree del mondo con costi di produzione molto più bassi e norme molto meno rigide. Sono, quindi, prodotti di lusso.

La comunicazione, nel corso degli anni, ha saputo, però, incorporare nei prodotti agricoli di qualità contenuti di sicurezza e di status. Infatti, il consumante bio - doc è, quindi, convinto di comprare, a proprio beneficio:
Sicurezza / qualità alimentare (non entro in merito alla realtà di questo fatto);
Valori di immagine (competenza nella scelta, capacità di spesa, attenzione ambientale, associazione con paesaggi fisici e socio-culturali di qualità ……).

La sua soddisfazione aumenta col crescere del valore aggiunto incorporato e le ormai frequentissime iniziative di promozione e pubblicità mirano a consolidare e alimentare questa condizione.

Queste produzioni sono utili all’ambiente sia nella fase di coltivazione, sia in quella di consumo: implicano, infatti, che il produttore abbia attenzione ambientale e paesaggistica e possono deviare una parte delle spese dei consumatori da simboli di status più impattanti.

La stessa analisi, sebbene in misura diversa, può essere applicata anche ad altri consumi di lusso:
Nella filiera dell’abbigliamento ci possono essere prodotti che associano qualità ambientale e qualità del prodotto (lane…… ?);
Nella filiera automobilistica, il mondo emergente dei mezzi a motore elettrico, potrà acquisire questo tipo status;
I gioielli “antichi” incorporano di storia, di villaggio antico, che, implicitamente, si associa a qualità socio-culturale, quindi ambientale;
……..
In altre parole, l’attenzione ambientale, come la stessa libertà dai codici di massa, sono un lusso, quindi, il lusso può portare con se un messaggio di attenzione ambientale. Infatti, le sezioni più attente dell’elite sociale già seguono questi codici comportamentali.

Esiste, inoltre, un mondo, già oggi definito “economia sociale”, che incorpora valori ambientali e sociali.

Ne fanno parte, a pieno titolo, le imprese agricole, artigianali e di giardinaggio, che incorporano ed occupano soggetti con difficoltà socio-sanitarie e sono riconosciute come tali dalla legge ed il mondo delle produzioni del terzo mondo, di cui è necessario sostenere lo sviluppo.
Per estensione, però, ne può far parte un vasto mondo di ricerca, di sperimentazione e non sempre codificato e riconosciuto, che opera sia in ambito agricolo, che artigianale, che terziario, con responsabilità ed il cui fare ricerca è in se elemento di attenzione sociale ed ambientale.

I prodotti di quest’economia sociale, nella maggioranza dei casi che io conosco, non sono, per costi di produzione e modalità distributive, più economici ed accessibili dei corrispondenti prodotti commerciali.
Ma questi prodotti, allo stato attuale, non è riconosciuto un valore di status come ai prodotti sopra citati che associano lusso ed ambiente.

Ad esempio, al prodotto agricolo bio e socio, secondo me, allo stato attuale, il consumatore medio può riconoscergli i valori di sicurezza, qualità e status, sopra descritti se il prodotto è bio – d.o.c., ma la sua natura specifica di prodotto di filiera sociale non porta con se un valore aggiunto specifico.

I pochi consumatori affezionati attuali, per lo più appartenenti alla borghesia intellettuale, animata da responsabilità sociale ed ambientale, acquistano i prodotti dell’economia sociale sulla base di pulsioni di solidarietà, nelle quali ci può essere sia una componente di consapevolezza e scelta politica, sia una di semplice carità.
Peraltro, spesso, a partire da questa percezione, nasce nel consumatore l’idea di un prodotto sociale sia “povero”, che, quindi, debba essere posto sul mercato a costi minori dello standard di riferimento, cosa economicamente non possibile, se non per le imprese sostenute, in modi diversi, dall’assistenza pubblica.

Perché le filiere di economia sociale, agricole e non solo, siano remunerate e l’acquisto interessi una platea più vasta di consumatori e sia percepito come conveniente è necessario, invece, che un qualche potenziale valore aggiunto del prodotto sociale sia creato, esplicitato e divulgato, in modo che sia collettivamente riconosciuto e diventi “trendy”.

Per ottenere ciò si deve fare in modo che il consumatore, acquistando il bene agro-alimentare, artigianale….., bio – doc e sociale, possa gratificare il suo ego sia con la qualità, sia con la possibilità di manifestare uno status, in altre parole, che quel “lusso” sia riconosciuto. In altre parole, che il costo della responsabilità sociale ed ambientale sia un lusso riconosciuto, di cui si possa sfoggiare il cappello.

Questo status, in alternativa al tipo prettamente “consumistico”, non può che essere di tipo intellettuale, manifestabile con messaggi tipo i seguenti:
So che esiste (ho informazione);
Conosco e capisco le problematiche affrontate con l’economia sociale (ho intelligenza, cultura e sensibilità);
Ritengo questo tipo di percorsi di recupero-reinserimento, creazione d’impresa….. più efficienti per gli utenti e per la collettività rispetto all’assistenza passiva (faccio parte dell’elite responsabile che conosce i problemi sociali, ma liberale quanto basta per spingere per un’economia sana e solida).

Il consumatore potrà, inoltre, essere informato dell’idea che segue:
I prodotti principali delle filiere dell’economia sociale sono la terapia, il reinserimento, la formazione, la sperimentazione. Le imprese, quindi, non hanno la necessità economica di “spingere” sulla quantità realizzata. Possono, quindi, adottare tecniche sane (bio, no O.N.G, recupero.…..) senza risentirne in termini di bilancio. Il prodotto sociale è, quindi, implicitamente di qualità.

Tanto maggiore sarà la capacità delle singole imprese sociali e del loro insieme nel creare un mercato che conosca e condivida queste opportunità e le usi per la propria comunicazione, tanto più i consumatori riterranno i prodotti che li incorporano convenienti, tanto potrebbe e dovrebbe aumentare l’autonomia delle imprese dal sostegno pubblico.

In altre parole, tanto maggiore sarà l’efficienza delle imprese nel produrre l’insieme di prodotti, di servizi socio – terapeutico - culturali e di messaggi, tanto più saranno competitive sul mercato, tanto più saranno sane, tanto più saranno libere dalla dipendenza dell’assistenzialismo, che sia nella forma del contributo o del mercato protetto.

Secondo me, quando questo mondo avrà raggiunto questa libertà e potrà stare sul mercato, anche pubblico, senza corsie privilegiate, si potrà dire che gli Enti e le Organizzazioni che l’hanno sostenuto hanno fatto il proprio, giusto, lavoro di volano socio – economico, che si è dimostrata la possibile sinergia nella produzione di servizi e prodotti, che si è, quindi, avviata un’economia valida e non si è costruita l’ennesima sacca di spesa pubblica assistenziale che incrementa il debito.

Se questo, invece, sarà risultato, chi su quella sinergia ha scommesso ed investito non potrà certo essere soddisfatto.

E’, quindi nell’ottica di esplicitare, con un messaggio di estrema sintesi, il valore aggiunto del prodotto dell’economia sociale che la SAP ha lanciato l’idea del marchio “ALTRO STATUS” e ne ha registrato il dominio in rete.

Chi desse un sostegno alla creazione dello “status” sopra descritto, contribuirebbe anche alla conquista degli obbiettivi ambientali e sociali dell’economia sociale.

Franco Paolinelli

giovedì 3 marzo 2011

Letteratura a scuola

Segnaliamo un articolo di Romano Luperini, ultimo numero di Alfabeta2, sull'insegnamento della letteratura dopo la "riforma" Gelmini. La didattica della letteratura, per non rischiare la marginalità, come accade ad una disciplina pur fondamentale come la storia dell'arte, dovrebbe privilegiare gli aspetti storici ed antropologici del testo piuttosto che l'apparato retorico. Insomma, proporre la letteratura come qualcosa che aiuta a capire il mondo e a prendere posizione, piuttosto che ad applicare formulari.
Posizioni che da anni una minoranza di docenti di lettere ha sostenuto, e praticato.

martedì 1 marzo 2011

Democrazia o libertà?

Segnaliamo un articolo di Lev Grinberg (professore di Economia Politica e Sociologia presso l’Universita Ben Gurion del Negev) apparso sul sito di Al Jazeera dal titolo “Democracy is no panacea” ( vedi link ) come interessante riflessione sulle manifestazioni di massa pro-democrazia che in questi giorni stanno interessando i Paesi del Nord Africa e del Medio Oriente. Paradossalmente proprio l’avvento della democrazia potrebbe rappresentare un rischio per tali nazioni, in quanto come osserva Grinberg “…..demonstrating for democracy is not enough. What the countries of the Middle East require is political consensus on mutual recognition of rights and coexistence, guaranteed by a constitution and institutionalised by electoral procedures and representative institutions.”

D'altra parte già Fareed Zakaria nel 2003, riprendendo Tocqueville, segnala il pericolo di una democrazia senza costituzione liberale nel suo "The Future of Freedom: Illiberal Democracy at Home and Abroad" (vedi recensione da MP News )
L'influenza delle democrazie occidentali dovrebbe forse preoccuparsi intanto di esportare tutti i diritti civili; un cambio di regime, auspicabile, potrebbe esserne una delle conseguenze.