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lunedì 11 febbraio 2013

Sulla scuola. Che fare (2)


La questione delle vacanze
Se un insegnante di secondaria superiore non deve svolgere gli esami di Stato, alla metà di giugno è libero da impegni, deve essere reperibile, non è ufficialmente in ferie, ma non va a lavorare fino al primo di settembre. Da questo momento fino all’inizio delle lezioni ci sono attività più o meno impegnative, ma che non comportano una presenza quotidiana e costante a scuola, per esempio alcuni svolgono i corsi di recupero estivi. Quando sono sospese le attività didattiche ( ponti, vacanze natalizie e pasquali) i docenti non devono recarsi al lavoro. Quando sono impegnati negli esami di stato (per i quali comunque si riceve una retribuzione), possono ritenersi liberi intorno alla metà di luglio, fermo restando che l’impegno non richiede una presenza continua dal termine delle lezioni al termine degli esami stessi. Possiamo fare qualche calcolo, certamente approssimativo, ma indicativo, così da sfrondare tanti luoghi comuni “trasversali”.
Sono 200 i giorni di scuola minimi che devono essere garantiti agli studenti per la validazione dell’anno scolastico.
Le settimane di scuola, quindi, sono circa 29 e ogni docente usufruisce di un giorno libero a settimana che va sottratto ai 200: totale 171 giorni di lavoro effettivo.
A questi vanno aggiunti i giorni impegnati negli esami di stato che possono variare da 10 a 15 giorni effettivi (ma che non riguardano tutti e, come ho detto, sono soggetti ad una retribuzione aggiuntiva sulla cui entità si può discutere, ma non riguarda questo contesto).
Il totale è di 180 – 190 giorni. Un dipendente pubblico in media, tolti i giorni festivi e un giorno libero a settimana, è in servizio per circa 253 giorni cui vanno sottratti 32 giorni di ferie: totale 221 giorni.
Quindi, gli insegnanti che sono impegnati più a lungo, ovvero quelli delle scuole superiori che svolgono gli esami di stato, lavorano 31 giorni in meno degli altri.
Fermo restando che le modifiche dei contratti di lavoro non devono essere calate dall’alto, ma devono essere il frutto di contrattazioni, questo governo ci chiedeva di aumentare a ventiquattro le ore di lezione settimanali, ed in cambio ci riconosceva 15 giorni di ferie in più. Ho sentito alcuni colleghi affermare che si trattava di una presa in giro “perché tanto lo sanno che a scuola dal 10 – 15 di luglio non c’è più nessuno, quindi che cavolo ci danno?”. Avrei voluto rispondere: ”Appunto!”,  ma non l’ho fatto.
Il ruolo degli studenti nella protesta
Affermare come ha fatto Monti che i professori hanno strumentalizzato gli studenti è generalizzazione inaccettabile. Ma la mia esperienza come madre di uno studente liceale e come docente mi ha purtroppo consentito di osservare che alcuni colleghi hanno diffuso tra gli studenti informazioni parziali, confuse, spesso generiche ed imprecise, in particolare sulla cosiddetta legge Aprea. Inoltre posso testimoniare che in un primo momento, appena si è diffusa la notizia del possibile incremento di sei ore settimanali senza aumento della retribuzione, gli studenti non hanno affatto reagito, la maggioranza di essi neppure sapeva di cosa si stesse parlando. Sono stati i docenti a parlare con loro, a dire che con questo si voleva rendere meno efficace il lavoro degli insegnanti e quindi svalutare la scuola pubblica. Alcuni docenti poi, di fronte ad una reazione piuttosto debole degli studenti di fronte a questa problematica, hanno spostato l’attenzione sull’Aprea, affermando che con questa proposta di legge si voleva privatizzare la scuola, sopprimere gli organi collegiali, abolire le assemblee studentesche. Non si è spiegato che le 24 ore erano un provvedimento inserito nella legge di stabilità, né cosa fosse una legge di stabilità; non si è chiarito che la Aprea giaceva da anni in parlamento e non era una novità; né si è letto nella medesima proposta di legge che essa portava a compimento il processo dell’autonomia scolastica e lasciava alle singole scuole l’organizzazione delle assemblee studentesche e degli organi collegiali e consentiva la partecipazioni di aziende private al bilancio delle singole scuole (come accade già in alcune zone del nord Italia).
Si possono condividere o meno queste proposte . personalmente non sono rasserenata dalle immagini che il “privato” generalmente offre di sé in questo paese -  ma non è consentito  e,  a mio avviso, è molto grave dal punto di vista deontologico, informare in modo parziale e superficiale gli studenti, incoraggiare forme di protesta “solidali” che innescano autogestioni, occupazioni o altre iniziative che ottengono l’unico risultato di rendere la scuola pubblica ancora meno appetibile, funzionale ed efficace.

Formare uomini e donne liberi  
Don Milani sosteneva che  non può dirsi un uomo una persona che non sappia leggere e capire la prima pagina di un quotidiano. Se questo era vero nei primi anni ’60, figuriamoci ora che la realtà politica, sociale ed economica si è fatta globale e sempre più complessa. Cosa fa, dunque, la scuola di massa, pubblica e laica per formare uomini e cittadini?
Sulla carta esistono materie come la storia, l’educazione civica, la filosofia, diritto ed economia che si presterebbero a riflessioni sulle situazioni economiche e politiche attuali, che sono ricche di spunti per una attualizzazione critica in relazione alla comunicazione di massa, alla crisi economica, al funzionamento delle maggioranze parlamentari, alla applicazione della Costituzione e via dicendo. Purtroppo si è esclusivamente attenti allo svolgimento dei programmi, al numero delle verifiche scritte e orali, alle nozioni apprese. Purtroppo, e spesso, si rinviano le riflessioni sull’attualità “a quando ci si arriva col programma”: il che vuol dire – quando va bene – alla seconda parte dell’ultimo anno di scuola superiore, quando gli studenti fremono per gli esami, quando bisogna arrivare al dunque, quando ci si accorge che “non si hanno abbastanza voti”, quando anche i discorsi sul presente appaiono argomenti di studio come gli altri.
Ci sono in molte scuole progetti di lettura dei quotidiani in classe, non so come funzionino, ma a me è parso che spesso ci soffermi sulla struttura del quotidiano, sull’analisi del linguaggio giornalistico, sull’esame delle diverse tipologie di articoli.

Flavia Morando (2-continua)