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lunedì 24 ottobre 2016

Lispector, Pugno, Ernaux. Potenza dei corpi, vie di fuga, uso della memoria.




Pubblicato su mondoperaio, ottobre 2016

Si deve a Giorgio Agamben la teorizzazione del concetto di nuda vita intesa come zoé, vita del singolo prima della sua qualificazione linguistica e politica nel bios. La nuda vita è lo strato di vita nascosto, che esiste clandestinamente, oscurata dalla vita sociale. Il viaggio nella nuda vita, e la sua necessaria connessione alla vita di tutti, è forse l'impresa più avvincente che la letteratura, in tempi di evaporazione della dimensione collettiva, possa compiere. Chi si mette sulle tracce della nuda vita non è interessato alla biografia, tanto meno alla propria. Vuole superare l'unicità della vita singola, privata per aprirsi all'incontro con l'altro fino ad immaginarne un uso politico. La scrittura di Lispector, Pugno, Ernaux ci incoraggia ad immaginare un'uscita dall'io atomizzato verso vie di fuga alternative ad un presente ridotto a mercato delle vite. Si tratta di riprendere quel lavoro sulla soggettività cui alludeva Foucault quando parlava della possibilità di concepire la nostra vita come un'opera d'arte; lontani dal disincanto oggi imperante, mossi dal desiderio non narcisistico di produrre nuovi e liberi modi dello stare nel mondo. Superando le poetiche della distopia che, pur efficaci nell'innescare la demistificazione,  palesano la loro insufficienza.
Nelle pagine conclusive di Vicino al cuore selvaggio, Clarice Lispector pone la sua protagonista nel segno dell'appropriazione della nuda vita: “sono Joana, tu sei un corpo che vive, io sono un corpo che vive, nient'altro”. Dichiarazione d'intenti che Lispector, da appassionata lettrice di Spinoza, svilupperà nei successivi romanzi, ma che in questo libro d'esordio rivela già le sue potenzialità eversive rispetto ad una scrittura della rappresentazione. Lispector non narra e non descrive, lavora sulle concatenazioni; su squarci di esperienza che ne aprono altri, senza soluzione di continuità, procedendo vertiginosamente  verso la destituzione di sé. Lontana dall'introspezione, come dal vitalismo, vòlta alla mera costruzione di sé come soggetto liberato; una pratica della letteratura estranea al mainstream neo naturalistico oggi in voga, perennemente alla ricerca del “grande romanzo” che spieghi ciò che è già noto. Varie le letture della sua opera. Da quella ispirata a Deleuze di Rosi Braidotti, a quella mistica di Luisa Muraro, ripresa anche da Emanuele Trevi. Lispector è estranea al misticismo religioso  forte della dichiarata opzione spinoziana, collocata nell'immanenza. Il suo misticismo non porta all'incontro con Dio, ma esplora la possibilità di divenire Dio, in questo procedendo su una strada simile a quella di D.H. Lawrence. Mette i suoi personaggi fuori della storia in una sorta di stato originario della materia vivente da cui partire per conquistare la beatitudine che è frutto di un lungo corpo a corpo col vivente. Fino all'affermazione, come ha notato Braidotti, di uno specifico femminile altro dall'interpretazione logocentrata del mondo e dal patriarcato che ne deriva.  La felicità per Lispector la si può raggiungere, sulle orme di Spinoza, qui ed ora. A patto che, come afferma la Lori di Un Apprendistato o il Libro dei piaceri, l'io esisto significhi “amare un altro essere che, lui, capiamo che esiste”. Vicino al cuore selvaggio si sviluppa intorno ad una giovane donna che, rimasta orfana bambina e ritrovatasi adulta vittima di un matrimonio infelice, sperimenta l'immersione nel vivente; come nell'idillio, nel senso leopardiano dell'interrogazione di sé nel tutto. Rinunciando a trama, caratteri, ambienti, il suo personaggio sperimenta il viaggio verso il “cuore selvaggio” della vita, allegoria di una ri nascita  inscindibile dall'esperienza del mondo. Personaggi estranei ad una forma di vita (il lavoro, la famiglia, la socialità) che li caratterizzi, mossi in un costante divenire che supera la frattura fra arte e vita.  Il che comporta l'assenza di un rapporto tra il soggetto e il mondo secondo categorie definite quali l'estraneità, il degrado, il gioco crudele degli affetti, lo sberleffo, l'intrigo, lo scenario distopico. Seguendo l'esempio di Lispector, la letteratura nell'era del postumano non trova più le sue ragioni nella rappresentazione delle opere del vivente ma nella loro disattivazione. Facendosi interprete della forma più alta di libertà, la produzione di sé. La letteratura, ormai affrancata dalla dialettica fra essere e mondo, può raccontare questo sottrarsi del soggetto ed il suo parlare “parole non pensate e lente” (Lispector). La mela nel buio è il testo in cui lo smantellamento del soggetto si compie nelle forma più completa. La trama, in questo caso più articolata, si sviluppa intorno alla figura di Martim, ingegnere in fuga dopo il tentato omicidio della moglie approdato in una fazenda in cui vivono due donne. Assunto come bracciante, si cala perfettamente nella sua nuova condizione fino all'inevitabile arrivo della polizia. Ma il romanzo non è qui. E' nella possibilità di ridefinire se stessi, fuori degli accidenti della vita sociale in uno spazio – natura posto al di là del bene e del male. Nella lunga parte introduttiva, vero e proprio testo nel testo, Lispector  esplora la relazione del vivente con la materia, fino all'individuazione di una comune appartenenza. “Io ti amo, disse il suo sguardo ad una pietra, perché l'improvviso mare pieno di grida turbava profondamente le sue stesse viscere, e in quel modo lui guardò la pietra”. I personaggi di Lispector esplicitano tutto, non alludono, fedeli alla consegna di avere finalmente dismesso la ragione e di essersi spossessati del linguaggio. Divenire parte della materia, come il divenire animale kafkiano di cui parla Deleuze, significa mantenere i piedi ben saldi a terra e lì costruire la propria liberazione. “Non si sa da dove si viene e non si sa verso dove si va, ma che noi facciamo esperienza, noi facciamo esperienza ! E' questo ciò abbiamo, Ermelinda, è questo ciò che abbiamo !”. Esperienza priva di consequenzialità, esposta a molteplici traiettorie, ma che non prevede alcuna dissoluzione nella trascendenza. Le essenze rimangono separate, ciò che si compie è un'esperienza di beatitudine di cui il soggetto è unico attore (Deleuze sul terzo grado di conoscenza di Spinoza).  La passione secondo G.H., riduce al minimo la trama. Tutto si compie dentro un appartamento di un palazzo borghese di Rio, dove G.H., dopo avere incontrato una  grossa blatta ed averla uccisa, intraprende un monologo che la porta definitivamente fuori del tempo spazio vissuto. In questo che è il testo più radicale di Lispector, la protagonista è chiamata a sprofondare nel tempo, nei secoli dei secoli, entro un fango che contiene le radici della sua/nostra identità. Il farsi blatta porta G.H. a scoprire che il mondo non è umanocentrico e che una nuova nascita è possibile solo partendo da una negazione. In nome della nuda vita, della fuoriuscita nella materia viva. Come in un rovesciamento del mito platonico, G.H. non torna nella caverna perché il mondo è falso, ma vi propone un'immersione ancora più profonda, continuando il viaggio. “No, non devo elevarmi mediante la preghiera: devo, satura, diventare un nulla che vibra. La cosa di cui parlo a Dio non deve avere senso! Se ne avrà vorrà dire che sto sbagliando”. E se la via d'uscita non è nella trascendenza, è nel dono di sé agli altri, nella vita comune che sconfigge la solitudine che di nulla ha bisogno e si nega alla relazione.
Aver bisogno non isola una persona. La cosa ha bisogno della cosa: basta vedere il pulcino che avanza per accorgersi che il suo destino sarà quello che la carenza farà di lui, il suo destino è quello di unirsi come gocce di mercurio, sebbene, come ogni goccia di mercurio, il pulcino abbia in se stesso un'esistenza interamente completa e tonda”.
Ne L'ora della stella, un narratore di secondo grado è alle prese con un intreccio sentimentale di ambientazione popolare che, tuttavia, dà voce ad un'idea di letteratura fondata sul rifiuto dello stile. Quel grado zero della scrittura, sintattico e lessicale, che costituisce l'elemento più profondamente kafkiano della sua opera. Cui si aggiunge “la noia di avere a che fare con i fatti”, così innervato nella vicenda letteraria del '900. In Lispector non vi è un mondo da conoscere, magari  lavorando sulla materia sociale con adeguato procedimento di deformazione, come in Gadda; né il suo fare tabula rasa della soggettività ha analogie con i percorsi di  Céline, Bataille, dell'ultimo Pasolini, in quanto ad operare la dissoluzione non è un evento esterno, ma un paziente lavoro di destituzione del vecchio io il cui posto è preso dalla gioia di aprirsi al mondo. Una letteratura della contro effettuazione, quella di Lispector, che mostra l'uso possibile degli eventi e ne sviluppa la forza liberante. Una sorta di manuale  in grado di sperimentare le strategie di sottrazione al dominio del possesso e, di conseguenza, all'infelicità. Mai come oggi, di fronte all'atomizzazione cui sembrano destinate le nostre vite, i destini di arte, letteratura, filosofia sono intrecciati nella affermazione di quel “niente altro che essere” di cui Deleuze parla a proposito di Spinoza. Serve una letteratura che ci ricordi come l'individuo non manchi di nulla, nella sua essenza vi è la potenza che lo realizza.
Laura Pugno, fin dall'esordio (Sirene), ha lavorato sul labile confine tra umano e non umano. Si tratta di una scrittura solo apparentemente liquida che rimanda, esasperando la trasparenza lessicale e sintattica tipica di tanta prosa italiana contemporanea, a forme di vita sottratte all'identificazione. Per questo lo spazio sociale, riconducibile al bios, è ridotto al minimo così come la comunicazione tra i personaggi. E' nella natura la possibilità di individuare una dimensione non pensabile, non riconducibile alla coscienza, della vita. Una scrittura che non ha nulla di cupo, ma che guarda alla vita e allude alla nostra capacità di liberarla. Come in Antartide (uscito nel 2011, ma scritto dopo La caccia), dove alla natura come possibile vie di fuga – l'Antartide in cui lavora e sogna di tornare il protagonista, il bosco limitrofo alla casa di cura in cui si aggira il misterioso Thierry – si accompagna il tema della ricerca di sé. Non solo come vivere, ma se vivere; così nel quasi suicidio di Matteo dopo un'immersione in Antartide e nella desolante condizione in cui sono immersi tutti i personaggi. Ma Antartide non è un romanzo disperato perché, come in Lispector, anche per Pugno la forza della vita non si esaurisce in ciò che conosciamo, c'è sempre un fuori cui guardare. Nella sequenza finale del romanzo, Matteo, come Tessa ne La ragazza selvaggia di fronte alla neve, si ritrova al cospetto del vento. Immersi nella natura  i personaggi di Pugno  non riusciamo ad immaginarli bloccati dalla tristezza, ma più che mai disposti ad agire. Ne La caccia (2012), romanzo che racconta di due fratelli in fuga la cui comunicazione avviene telepaticamente, la dimensione extrasensoriale è l'estrema risorsa sottratta al controllo del potere incarnato da oscuri miliziani. Entrambi fuggiranno nella Gora, terra di misteriose e imprendibili creature (come Rousse, la donna volpe) da cui discendono, in cui immaginiamo possano sperimentare una nuova vita. L'impressione del lettore è di entrare in una storia già iniziata destinata a continuare dopo l'ultima parola del romanzo, come se i personaggi fossero tutt'altro che unici ma solo una delle infinite versioni di un essere nel mondo che si perde nel tempo. Il che spiega la loro scarsa caratterizzazione, come se fosse sufficiente abbozzarne i tratti principali per renderne il senso. La ragazza selvaggia (2016), il cui titolo è esplicitamente riferito al caso del ragazzo dell'Aveyron del film di Truffaut, è il testo nel quale l'investimento narrativo si realizza apparentemente al livello più alto. Tessa, una giovane ricercatrice che conduce una vita solitaria in una riserva naturale, ritrova una ragazza scomparsa anni prima nel bosco. Dasha, orfana di Chernobyl, era stata adottata con sua sorella Nina da una ricca famiglia italiana segnata da un destino tragico: la sua gemella Nina vive in stato vegetativo in seguito ad un incidente, la madre Agnese è persa nella follia, Giorgio Held, il padre, muore dopo aver tentato invano di recuperarla alla vita sociale. Non inganni un inaspettato, viste le precedenti prove, risvolto giallo legato alla scomparsa di Dasha,  provocata dalla gemella Nina forse in competizione per l'affetto della nuova famiglia. Il romanzo è una riflessione sul tema della libertà e se quest'ultima non sia ormai pensabile che in una nuova condizione postumana che la sottragga all'utilitarismo ordinatore che domina i rapporti sociali; non è un caso che anche in questo romanzo Pugno offra una rappresentazione devastata della famiglia, luogo di infelicità e malattia da cui fuggire. Un romanzo che conferma quanto non le interessino le trame e le intersezioni tra i personaggi, ma la condizione in cui si trovano e le possibilità che scoprono di avere. Dasha e Tessa scelgono di fuggire verso il buio dei boschi per sperimentare, grazie alla potenza gioiosa che muove i loro corpi, ciò di cui saranno capaci. La speranza è che Pugno mantenga questo rigore, non pensi mai di scrivere “romanzi” e, soprattutto, continui ad esplorare il bosco.
Annie Ernaux lavora sulla memoria in una dinamica di allusioni alla vita di tutti noi che fa della sua opera una sorta di voce collettiva. Non solo ne Gli anni, il suo romanzo più importante, ma anche in testi come L'altra figlia o Il posto in cui tratta degli affetti più intimi, di vicende familiari. Proust ricorre  alla memoria perché è il solo modo per rivivere il piacere, una contemplazione del vissuto che diviene una sorta di opera d'arte, come insegna Swann. La sua scrittura non nasce nella stanza foderata di sughero, ma nella costante interrogazione di sé. E dell'altro. Ma è necessario fare i conti con il passato che è sempre reso entro una fitta trama di eventi nei quali la voce che narra non è mai unica o irripetibile. Nei romanzi di Ernaux la vita è sempre assimilabile ad altre vite. Dalla famiglia di piccoli commercianti normanni, alla scrittura, alla politica, al femminismo, alla perdita delle speranze collettive, al divorzio, si snoda la vicenda di una donna che narra di sé prendendone le distanze, consapevole della sua dimensione comune. La storia individuale è dentro quella di tutti. Come in Proust il racconto di una vita non può che passare dal racconto degli altri e dei tanti io che costituiscono il narratore. Ernaux è una delle voci più potenti nel rappresentare questa dimensione multiforme della soggettività, il suo essere irriducibile ad una singolarità, il suo divenire anche in relazione alla memoria. Ne Gli anni, persone, oggetti, marito, figli, amanti, fluiscono spossessati della loro appartenenza ad “una” vita. Come l'Algeria, il maggio '68, l'elezione di Mitterand formano degli strati rispetto ai quali non c'è spazio per alcuna nostalgia. L'autobiografia impersonale immagina la letteratura come una archeologia consegnata ai posteri, una voce che consegna “la voce di un tempo in cui non saremo mai più”. Ne Il posto il racconto della vita del padre, si rivela la messa in scena di un tradimento: della figlia, emancipatasi nella doppia veste di insegnante e scrittrice, nei confronti della famiglia di origine. Il tradimento comporta la scissione da sé, l'impossibilità di una ricomposizione dell'io. Quando si sceglie di uscire da un posto, poi difficilmente se ne trova un altro altrettanto solido.  Ernaux ribalta il tradizionale meccanismo della narrazione autobiografica che privilegia l'individuo rispetto al contesto nel quale agisce; è il contesto ad attraversare il soggetto, a determinarlo, a renderlo consapevole dell'alterità. A dare alla letteratura la forza di gabbare il tempo, restituendo il senso di ciò che non è più. Come ne L'altra figlia, attraversato dalla presenza – assenza di una sorella morta prematuramente e mai conosciuta cui la narratrice si rivolge in seconda persona nella forma della lettera. Sono alcune parole carpite alla madre a svelare l'esistenza della sorella, fino a quel momento e anche in seguito mai menzionata dai genitori. Il giorno dell'involontaria rivelazione materna segna una seconda nascita per la narratrice che inizia a fare i conti con la perdita dell'innocenza. Che l'accompagnerà sempre e le insegnerà a riconoscere le illusioni. Come quel tu utilizzato nella lettera, in realtà una trappola, seducente nel creare un'intimità immaginaria che risolve una vita nella fine dell'altra. Perché non si è mai una cosa sola, il senso di sé è composto da un serie di strati che rimandano ad un presente e ad un passato di cui non siamo il centro. La letteratura può illuminarli, contribuendo così a rendere la vita migliore.
Mi ci sono voluti quasi trent'anni e la scrittura de Il posto per collegare questi due fatti che dentro di me restavano separati l'uno dall'altro – la tua morte e la necessità economica di avere un solo figlio – e per far sì  che la realtà sfolgorasse: sono venuta al mondo perché tu sei morta e ti ho sostituita (...) Io non scrivo perché tu sei morta. Tu sei morta perché io potessi scrivere e questo fa una grande differenza.
Paolo Allegrezza

BIBLIOGRAFIA
G. Agamben, L'uso dei corpi, Neri Pozza 2014.
R. Braidotti, Nuovi soggetti nomadi, Ebook@women 2014.
G. Deleuze, Cosa può un corpo ? Lezioni su Spinoza, Ombre corte 2013.
P. Godani, La vita comune. Per una filosofia e una politica oltre l'individuo, Operaviva 2016.
C. Lispector, Le passioni e i legami, Feltrinelli 2013 (introduzione di Emanuele Trevi).
B. Spinoza, Ethica e Trattato teologico-politico, Utet 2013.