venerdì 31 dicembre 2010
La svolta del Riformista non è la fine dei riformisti
Dall' ultimo editoriale di Antonio Polito, oltre ai motivi di questa svolta, si possono ancora trarre significativi temi di riflessione. Già Franco Paolinelli nel suo post su come "vendere il prodotto" per la Sinistra prefigura una delle difficoltà ormai storiche. Il riformismo non è un ideale prodotto di facile consumo e diffusione e richiede invece quelle doti che tutti lodano ma contemporaneamente scansano: pazienza, razionalità, intelligenza di dialogo, abilità di sintesi. Insomma il riformismo non è di moda. Polito ne individua una delle principali ragioni in un sistema politico populista (dove va scivolando il nostro paese) in cui anche parte dell'opposizione crede di potersi affermare a sua volta nella stessa logica populista. E su questo terreno vince uno solo, il migliore nella specialità: Mr. B.
Sinistra: come vendere il prodotto oggi ?
Valgono quindi tutti gli elementi ipotizzati per le associazioni. E’, quindi, possibile leggere i partiti come sistemi d’impresa, con una propria nicchia di mercato potenziale.
Analizzando nel dettaglio le componenti di scambio si possono valutare le seguenti ipotesi:
A) Perseguire l’obbiettivo sociale:
Si è investito nella funzione di rappresentanza degli interessi del blocco sociale ereditato dalla sinistra storica dal millennio passato, ovvero si è perseguito l’obbiettivo di garantire gli interessi economici dei soci esistenti e le posizioni del management, alle varie scale, ovvero della gerarchia.
Non si è, però, saputo candidare la sinistra a rappresentare un progetto di convivenza sociale per l’intera società in corso di evoluzione.
B) Produrre opportunità di aggregazione sociale:
La fruizione di questa funzione si è alquanto ridotta. Le variazioni delle condizioni culturali e sociali, dall’esplosione dei nuovi media, all’immigrazione, alla globalizzazione culturale hanno reso meno efficienti i meccanismi di aggregazione codificatisi nel dopoguerra, ancora vitali fino verso la fine del millennio scorso.
C’è da chiedersi se il management ha fatto del proprio meglio o meno per adeguare i servizi offerti alle condizioni socio-culturali sopraggiunte.
C) Produrre elementi di dignità ed identità per i soci:
Questa funzione, che in grande misura è sinergica con la precedente, è crollata. Oggi è più difficile di qualche decennio fa trovare chi si “mette il cappello” della sinistra, ovvero manifesta la propria adesione alla politica delle sue forze. Evidentemente non paga in termini d’immagine sociale quanto accadeva prima, quindi il consumo di questo servizio è crollato.
Va quindi valutato in che misura questa condizione sia dovuta alla modifica della domanda, ovvero quanto alla carenza dell’offerta.
L’offerta si è saputa adeguare alle mutate condizioni della domanda potenziale ?
L’ha saputa interpretare ?
Il management non ha forse dato per certa l’esistenza del proprio bacino di mercato potenziale senza preoccuparsi abbastanza del mutare delle condizioni sociali e culturali ?
Non ha forse sottovalutato le funzioni di aggregazione sociale e di identità, dando per certo che la funzione di difesa economica fosse l’unica di rilievo ?
Non si è forse alienato, così facendo, il mercato di chi non richiedeva servizi sindacali, ma richiedeva servizi d’identità ?
Non si è alienato, in questo modo il retroterra culturale che garantiva dignità e spessore a tutta la sinistra ?
Non ha forse contato troppo sulla capacità di aggregazione della piramide gerarchica, ovvero sul collante degli interessi che, con questo meccanismo, dovevano far fluire benefici materiali dal vertice alla base ?
Non ha forse dato troppo peso al confronto con le altre squadre, dandone troppo poco alla soddisfazione delle esigenze dei propri soci – consumatori ?, quindi al consolidamento della propria identità ?
F.P.
giovedì 30 dicembre 2010
Numeri e PD
(Dati, Istat, Fiom, Luca Ricolfi, "Illusioni italiche")
p.a.
lunedì 27 dicembre 2010
Sinistra e identità n. 4. La scena romana
In ogni comunità si esprimono pulsioni di interesse individuale e pulsioni di responsabilità che creano il necessario controllo degli interessi di ognuno. Per l’esistenza di una comunità di persone ed il suo sviluppo è necessario che l’equilibrio dinamico tra queste due pulsioni persista, senza superare determinati livelli di ognuna.
Quanto detto vale ad ogni scala, dalla famiglia, al globo. La città è una comunità di persone coesistenti, deve quindi avere un proprio equilibrio che trasforma in codice d’identità. Ogni città ha il proprio.
Le forze sociali che si fanno, o dovrebbero farsi carico della pulsione di responsabilità per la convivenza dovrebbero esprimere anche un codice d’identità che la motivi e la sostenga, dando dignità ed identità in cambio di controllo delle pulsioni d’interesse individuale.
Roma ha le sue modalità di esprimere egoismo e responsabilità, disordine ed ordine. E’, quindi, compito delle sue forze del polo della responsabilità offrire i servizi di aggregazione ed identità necessari a compensare le rinunce all’egoismo, ad ogni livello del vivere civile.
In altre parole, queste forze devono proporre il romano compatibile. Questi può, quindi, sposare un’identità ed un modus vivendi adeguato se chi ha la possibilità di crearlo e promuoverlo lo fa.
In alcune stagioni del passato recente è stato fatto. Le forze sociali e culturali hanno creato e dato spazio ad un modello di cittadino romano scanzonato, ma aperto al mondo, sveglio nella misura necessaria per permettersi la solidarietà, educato, ma con fantasia……..
Diversi elementi, da rintracciare sia nell’offerta che nella domanda d’identità, hanno compromesso l’alimentazione ed il consumo di questo modello, spingendo i cittadini romani verso la grettezza e la chiusura. Questa trasformazione è percepibile nei comportamenti dei privati cittadini come delle istituzioni, della burocrazia come delle imprese, con conseguente riduzione della qualità di vita di tutti noi.
Anzi, il vuoto delle istituzioni culturali e politiche è tale che c’è da stupirsi per la tenuta sociale del popolo romano.
Nel rilanciare il proprio ruolo le forze locali della responsabilità debbono, quindi, definire un modello di sviluppo romano ed proporre come la città, se ben governata, possa raggiungere un buon punto di equilibrio tra ordine e disordine, tale da garantire un ottima qualità di vita. Ma devono anche offrire un codice d’identità, ovvero devono dare dignità al cittadino romano che si fa carico del modello proposto, interpretando eventualmente a suo modo, le esigenze di rispetto ambientale, sociale, economico e culturale.
Si può, peraltro, definire il punto d’equilibrio del possibile modello “romano” in tutti gli elementi della realtà.
Ad esempio, lo si può elaborare in ambito urbanistico, nell’equilibrio, ancora difendibile, tra città e compagna, verde ed edificato.
Lo si può trovare e migliorare nella stessa burocrazia, premiando le nicchie di buona volontà, responsabilità e fantasia, anche quando devono interpretare od aggirare normative insulse e deprimenti.
Lo si può trovare e migliorare in ambito economico valorizzando la piccola e media impresa e dando maggiore libertà alle forze produttive che ci sono, ma sono schiacciate dalle difficoltà burocratiche e logistiche. Premiando, quindi, in termini economici e di dignità, chi fa, ovvero chi produce ricchezza per se e per la collettività.
Lo si può anche vedere e valorizzare nel possibile equilibrio tecnologico e sociologico tra modernità e conservazione, vivendo come privilegio della città la presenza in se di massime istituzioni laiche e religiose.
Lo si può, infine, esplicitare nell’equilibrio d’identità etnica, ancora esistente, ma a rischio, valorizzando la “romanità” stessa, come codice d’esistenza solido e per questo aperto, capace di accogliere e valorizzare, oggi come ieri, i contributi che le vengono dal mondo intero.
F.P.
giovedì 23 dicembre 2010
mercoledì 22 dicembre 2010
Tea party: razzisti più che liberisti
p.a.
martedì 21 dicembre 2010
Sinistra e identità n. 3. Quale progresso ?
Le comunità, finché non interviene una catastrofe, vivono un processo dinamico di ampliamento che implica crescita numerica delle loco componenti, sviluppo tecnologico, adattamento umano, incremento di organizzazione, inclusione, migliore distribuzione del benessere. Questa dinamica è stata chiamata progresso.
Il cuore dell’essere sociologicamente di sinistra è nel saper vedere le esigenze della comunità oltre le proprie, quindi nel sostenerne il progresso e nel partecipare all’edificazione di un assetto sociale che valorizzi le opportunità disponibili.
Oggi quanto detto implica, tra gli altri aspetti, il sostegno agli strumenti tecnologici che non comportano rischi per le comunità, alla creazione delle stesse alle scale coerenti con i mezzi tecnologici disponibili, quindi all’inclusione delle realtà ambientali, dei popoli, delle culture e delle nazioni che i mezzi tecnologici mettono in relazione e coinvolgono nello sviluppo……
La sinistra, fin’ora si è identificata con un’ottica progressista, ma oggi questa posizione non è facile,
Infatti, in primo luogo, la scala e l’idea stessa di assetto sociale possibile non è evidente, la società utopica è difficile da immaginare ed identificare. Non è affatto chiara la sua fisionomia tecnologica, culturale, sociale e politica. Questa società non si vede ancora, ne quindi va di moda, non paga proporla, ne in termini di immagine, ne di posizione politica. Non c’è ancora.
Inoltre, la scala della lotta politica è ancora nazionale, mentre l’assetto possibile e necessario è globale. L’insieme delle forze umane che dovrebbero crearlo è però, ancora frammentato nelle molteplici realtà locali.
Peraltro, alle scale nazionali, molte delle realtà sociali la cui inclusione era il fine dei progressisti di ieri, oggi difendono interessi costituiti e questo chiedono di fare ai loro rappresentanti.
Le loro organizzazioni tradizionali si trovano, quindi, nella condizione contraddittoria di richiamarsi a valori progressisti e difendere al contempo interessi consolidati, spesso corporativi.
La confusione d’identità e la difficoltà a proporre alle categorie rappresentate un progetto d’inclusione aperto alla scala necessaria rende oggi le “azioni” di queste forze poco appetibili.
Gli interessi d’inclusione dovrebbero essere espressi da immigrati che ancora non hanno capacità di dialogo con le forze politiche, ne questa sanno ancora dialogare con le loro comunità.
Tanto meno possono esprimere consenso le realtà ambientali che l’espansione incontrollata coinvolge nello sviluppo delle comunità umane.
La lungimiranza necessaria a vedere l’evolvere fisiologico del processo di costruzione dell’assetto possibile, quindi, la tenacia e la pazienza necessarie a sopportarne i tempi, conservando l’impegno della sua edificazione, non sono, quindi, facili da mettere in atto. Coerentemente l’immagine del progressista non va di moda quanto è andata in decenni addietro, non paga in termini d’immagine, quindi, non interessa a chi sposa determinati comportamenti solo se gli offrono un profitto di opportunità e d’identità.
Di conseguenza, oggi, fare una politica progressista oggi non è affatto facile, indipendentemente dall’abilità di rappresentanza messa in atto dai conduttori delle forze politiche che si richiamano ai quei valori.
I risultati elettorali recenti evidenziano, però, che inseguire la Lega e le Destre sul terreno populista e delle cordate d’interesse non produce un terreno sociale solido.
Ma, sono dell’opinione che la crescita di consapevolezza di questa difficoltà possa essere d’aiuto nel coinvolgere chi può vedere i processi e può contribuire all’edificazione del progresso possibile. Evidenziare le condizioni attuali, accettarne il carico e diffondere la consapevolezza delle oggettive difficoltà esistenti nel costruire la convivenza potrà forse nobilitare l’immagine di chi si presta al compito e delle relative organizzazioni.
Ma sarà la sicurezza pacata e lungimirante delle tesi di pochi pensanti ad attrarre i molti di più che cercano un modello da imitare, certamente non sarà la rissa isterica a riportare attenzione alla sinistra ed ai suoi valori.
Sarà, quindi, la superiorità intellettuale e morale a catalizzare consenso ed a contribuire a costruire la società possibile, poiché il Governo, quando c’è e dove c’è, è sempre espressione dei migliori, degli aristos, sicuri, tenaci, non interessati al profitto meschino, con visioni di lungo respiro.
Avviare il processo di acquisizione di consapevolezza darà le basi perché chi ha questa forza e queste caratteristiche accolga e sposi il progetto, che deve essere mitico, di costruire la società possibile. L’uomo, o la donna, giusti, arriveranno, quindi, solo quando questo processo sarà avviato, e non è denunciando le schifezze dell’uno o dell’altro degli antagonisti politici che si avvia la consapevolezza, che ci si pone in alto. Anzi, denunciando l’orrore dell’altro si esprime il bisogno di marcare la differenza. Ma tanto è urlata, tanto più risulta dubbia. Agli occhi del cittadino si finisce per confermare che la politica è tutta uno schifo.
Peraltro, alla scala del cosmo, se pur l’uomo avrà ucciso la vita sul pianeta terra, non sarà assolutamente accaduto niente di rilevante. E’ molto probabile che ci siano tanti altri pianeti in cui la vita sta germogliando.
F.P.
domenica 19 dicembre 2010
Verso la manifestazione di mercoledì degli studenti
La sensazione forte che mi rende teso e perplesso è che questo movimento rischi di essere vittima di una mancanza di razionalizzazione delle intuizioni, di una tendenza ad essere superficialmente (non uso questo termine in senso negativo ma proprio nel senso dello stare in superficie) collegati con quanto accade, vivendolo con intensità pre-cosciente.
Questo è forse stato sempre tipico dei giovani ma oggi mi sembra potenziato dai moderni mezzi e linguaggi della comunicazione.
Il nemico dal quale i ragazzi del movimento si devono guardare non è quindi l’estremismo di alcune frange che si autocondannano alla marginalità, né il velleitarismo democratico di chi pretende in termini pre-politici che il governo tenga conto delle proprie esigenze reali, né ancora le strumentalizzazioni che da parte del mondo politico potrebbero essere messe in atto, in positivo o in negativo è lo stesso.
Il loro vero nemico è l’incapacità di tradurre in discorso la pluralità delle spinte che li caratterizza, dandogli una forza complessiva di redefinizione dei rapporti generazionali e politici.
In realtà questa potrebbe essere la loro forza a patto però che sappiano reinventare la comunicazione e trovino un settore del mondo degli adulti che in questo li sostenga e li appoggi.
Occasione imperdibile per la sinistra, sapremo farlo?
Perché non cominciare fornendo alla prossima manifestazione un servizio d’ordine autorevole e pacifico che definisca lo spazio in cui lasciarli liberi di agire?
Potrebbe essere la metafora su cui fondare, in maniera scevra da ogni paternalismo e da ogni interesse di bottega, un rapporto importante per chi vede nella ridefinizione delle pratiche sociali e politiche la strada maestra di quella che un tempo si chiamava rivoluzione ed oggi, che siamo tutti moderati, potremmo chiamare rigenerazione sociale.
F.P.
giovedì 16 dicembre 2010
Il PD non é messo così male
Il Pd non appare messo così male. Deve, però, attrezzarsi per le elezioni in primavera, consapevole dell’impossibilità di alleanze elettorali con Casini o con l’eventuale Terzo polo. A questo punto si pone un problema: come bloccare l’Opa di Vendola sul Nuovo Ulivo salvando il profilo riformista su cui è nato il Partito democratico? (Considerando che le primarie sono inevitabili).
La campagna elettorale del Nuovo Ulivo dovrà chiarire che non è in gioco la possibilità di affrontare i problemi strutturali del paese, per i quali si dovrà attendere un secondo tempo. La posta in gioco sarà la salvezza dal definitivo scivolamento della democrazia italiana nel populismo. Riforma elettorale, una finanziaria che archivi Tremonti, da scrivere peraltro sotto dettatura europea, conflitto di interessi, poi di nuovo al voto. Su questo percorso grava, tuttavia, un ostacolo non da poco. Si chiama candidato leader.
A chi affidare il compito di sconfiggere Vendola alle primarie e giocarsela col Caimano senza finire col restare stritolato nella doppia morsa? Assodato che Bersani non è competitivo né con l’uomo di Arcore, né con il governatore pugliese, serve una mossa che sparigli. Individuare un candidato dall’alto profilo istituzionale e in grado di parlare all’elettorato moderato. Uno che per competenza e serietà riconosciute appaia all’altezza della crisi che stiamo attraversando e possa dialogare con il Terzo polo. Uno spendibile anche per il Quirinale, dopo aver salvato la repubblica. Perché non guardare dalle parti di Bologna?
Paolo Allegrezza
pubblicato anche su thefrontpage
martedì 14 dicembre 2010
CONTRO PIACENTINI
In questo clima già abbastanza deprimente di per sé, tra Università assediate dall’esterno e vergognosamente incapaci di alcuna seria autoriforma, politica nazionale in attesa di nuovi rimandi per garantire poteri già logori, mafie e camorre strapotenti, di tutto si sentiva il bisogno eccetto che di questo convegno su Piacentini. Che, ricordiamolo è stato l’alfiere di una politica urbanistica e architettonica all’insegna del trasformismo, del monumentalismo, della pesantezza classicheggiante in ossequio ai poteri forti da qualunque parte (liberali, fascisti, democristiani) si affacciassero lungo il suo mezzo secolo di attività. Architetto e urbanista inoltre di scarsa originalità (il suo capolavoro è considerato l’Eur di Roma), è stato il grande affossatore della generazione dei razionalisti a cominciare da Giuseppe Terragni e poi proprio nell’Eur con l’estromissione di Giuseppe Pagano e Luigi Piccinato.
Tra mille convegni interessanti perchè proprio questo? Perchè ora? I convegni sono sempre politici, diceva Zevi. E adesso più che mai. Rivendichiamo l’Antipiacentinismo di Ridolfi, di Albini, di Gardella, di Terragni, di Ricci dei più vitali interpreti della cultura architettonica italiana. Rivendichiamo l’Antipiacentinismo delle Torri di Viale Eritrea, del Mausoleo delle Fosse Ardeatine, delle Unità di abitazioni di Libera! Rivendichimo l’Antipiacentinismo dell’Asilo Sant’Elia!
Antonino Saggio
domenica 12 dicembre 2010
In fuga dalla questione morale
In Italia in modo particolare...
( Illuminante la risposta della prof. De Monticelli ad una recensione critica di Marcello Veneziani su "Il Giornale", dal sito phenomenologylab.eu )
Così fuori dal tempo l'aforisma di Enrico Berlinguer?
«La questione morale esiste da tempo, ma ormai essa è diventata la questione politica prima ed essenziale perché dalla sua soluzione dipende la ripresa di fiducia nelle istituzioni, la effettiva governabilità del paese e la tenuta del regime democratico.»
Certe cose si possono pensare, dire forse, con prudenza, ma far intravedere che si possano anche sistematicamente mettere in pratica è follia.
pc
P.S. - Per chi volesse approfondire segnalo l'intervista di Scalfari a Berlinguer del 28 luglio 1981
sabato 11 dicembre 2010
HAIKU PROJECT
giovedì 9 dicembre 2010
La letteratura dell'osceno
Aldo Nove, con "La vita oscena" ha scritto un libro che ci mancava. Mai finora la letteratura italiana aveva rappresentato con tanto nitore il nichilismo contemporaneo, la mercificazione delle relazioni su cui sembra impastarsi quest'ultima stagione della post contemporaneità. Merito di Nove è di avere rifiutato il facile bellettrismo consolatorio di tanti suoi contemporanei in nome di un realismo straniato e sperimentale che deve molto alla lezione di Balestrini. Tanto per fare nomi, una strategia letteraria opposta a quella dei Piperno o delle Mazzantini, incapaci di andare oltre gli scontati sentieri del romanzo borghese. "La vita oscena" è un romanzo di formazione che narra la discesa agli inferi condita di alcol, droga, sesso compulsivo di un giovane io narrante. Siamo nell'Italia degli anni '70 - 80, identica a quella di oggi. In un paesaggio urbano indifferente e disumanizzato in cui la funzione del comunicare ha perso ogni potenzialità. Il protagonista si inabissa in un percorso autodistruttivo che lo porta a sperimentare l'annullamento totale di sé nel consumo. Droga e sesso diventano così i due idoli di una progressiva discesa nell'abisso dell'incoscienza. Fino alla bellissima scena finale della rinascita dal martoriato ventre materno di un doppio nel cui "sguardo vidi tutta l'ansia tutto l'orrore tutta la speranza tutto l'amore tutta la rabbia tutta l'impazienza tutto il desiderio che nel corso degli anni avevano attraversato il mio cuore". C'è molta pornografia nel libro. Raccontata come una sorta di potente narcotico in grado di lenire le fitte dell'angoscia. E' un tema tutt'altro che raro nella narrativa italiana contemporanea. Dall'intrattenimento frivolo di una Melissa P., ai rifacimenti sadiani (quanto sterili) della Santacroce, alla pornografia come allegoria del consumo e della perdita di senso di Scarpa (Kamikaze d'occidente)e, appunto, di Nove. Un tema che però necessita di un forte filtro stilistico in grado di decontestualizzarlo, secondo la lezione delle avanguardie novecentesche. Da tutto ciò, dalla coraggiosa disamina del presente condotta con la forza "aperta" e dialogica dell'allegoria può ripartire una nuova ondata della letteratura italiana definitivamente riscattata tanto dal richiamo dell'idillio quanto da quelle, sempreverdi, della fuga dal mondo.
p.a.
lunedì 6 dicembre 2010
Efficienza o devozione?
A quanto pare, in Italia, l'endemico sottodimensionamento delle capacità organizzative e l'eccessiva propensione a far prevalere aspetti emotivi e interessi personali sulla necessità di mettere a punto processi efficienti generano dinamiche frustranti e, in definitiva, infelicità; cioè proprio il contrario di ciò che, a chiacchiere, ci sta a cuore!
Perciò il lavoratore ideale è maschio, devoto all'azienda, privo di interessi sociali o impegni familiari. Un esempio illuminante in una testimonianza di Stefania Baucé su l'Unità .
E un dubbio: un apparente punto di forza della nostra talvolta bacchettona, familistica, mammona e maschilista italianità non sarà forse anche l'insopportabile palla al piede della nostra classe dirigente e di ogni serio tentativo riformatore in direzione di un'efficiente e solidale convivenza democratica?
p.c.
giovedì 2 dicembre 2010
Luca e il capitalismo italiano
Dal 1955 al 1963 l’Eni editò una rivista culturale diretta da Attilio Bertolucci. Si chiamava Il Gatto selvatico. Nel frattempo, il servizio documentari era affidato ad Ermanno Olmi che poté realizzare così le sue prime opere. In quegli stessi anni l’Olivetti pubblicava Comunità e Finmeccanica Civiltà delle macchine. Quest’ultima diretta da un genio irregolare, il poeta-ingegnere Leonardo Sinisgalli. Nel mondo olivettiano lavoravano personaggi come Volponi, Ottieri, Spagnoletti. Ancora, Raffaele Mattioli dalla Comit trovava il tempo di finanziare la pubblicazione della collana dei classici italiani con il marchio Ricciardi.
Mattei o Mattioli non erano anime belle, erano capi azienda tosti e spregiudicati. Ma avevano, come direbbe Vendola oggi, una visione. Dagli anni ‘70 nessuno nell’industria italiana ha più avuto simili ambizioni. Forse il declino italiano nasce da lì, dal cinismo che portò ai vertici del capitalismo italiano personaggi come Romiti. Fino alla degenerazione emersa nei primi anni ‘90 e culminata, non a caso, con l’affaire Enimont. In tutto questo Berlusconi non c’entra nulla, mentre sarebbe curioso sapere cosa pensa di questa “crisi di sistema” il candidato in pectore del terzo polo. Quel Luca C.d.M. che qualche frequentazione di quegli ambienti l’ha pure avuta. E ancora se ritiene che il capitalismo italiano nel quale lui ha lavorato per decenni abbia sempre fatto i conti con il mercato e con i suoi oneri. Se pensa che sia sempre stato all’altezza del suo compito oppure abbia lucrato sul rapporto con la politica. In assenza di queste risposte il “nuovo” rischia di nascere ancora una volta sotto le vesti del trasformismo.
Come il Crispi sapientemente affrescato nel bel film di Martone.
p.a.
pubblicato anche su thefrontpage.it
lunedì 29 novembre 2010
Riparliamo di democrazia digitale ?
Cari amici,
vi invio il link a un articolo che ho scritto per il quotidiano Terra e il webmagazine Linkontro dedicato al web 2.0 e alla partecipazione politica on line.
Lo spunto parte dal diffondersi su internet - grazie all'esplosione dei Social Network - di fenomeni collaborativi che stanno coinvolgendo settori sempre più ampi della società.
Nell'intrattenimento, nel business, e ora anche nella politica, le comunità di utenti si stanno trasformando sempre più in fornitori di idee, contenuti, soluzioni, talvolta geniali.
E su internet pullulano nuovi programmi creati ad hoc.
Alcuni anni or sono (a cavallo tra il 2004 e il 2007) diverse pubbliche amministrazioni lanciarono progetti pioneristici di partecipazione politica via internet. In buona parte oggi dimenticati.
E' possibile oggi rilanciare questi progetti con maggiore convinzione?
I tempi sembrerebbero maturi.
Mi farebbe piacere anche ricevere un vostro commmento su Linkontro, se lo riterrete opportuno.
Ciao
Stefano Rollo
(Consultant - Media & Educational management
Free lance)
sabato 27 novembre 2010
Una crostata da ricordare
Tornando oggi sul tentativo riformatore messo in atto dalla commissione bicamerale presieduta da Massimo D'Alema, la prima riflessione da fare riguarda la difficoltà di realizzare un progetto costituente mantenendo separati riforme e governo. Una delle ragioni del fallimento di quel disegno, se non la principale, è infatti da ricercare nella sovrapposizione tra il livello costituente e la perdurante competizione fra i partiti. Un quadro che, se per un verso rimanda al comportamento pilatesco tenuto in quell'occasione dal leader del Polo, per un altro chiama in causa un centro – sinistra stretto tra volontà di riforma e necessità di tutelare gli equilibri politici che lo sostenevano. Non è questa la sede per ricostruire la schermaglia di dichiarazioni e controdichiarazioni, stop and go che portarono alla crisi della bicamerale. Ciò che ci interessa sottolineare è il nesso tra le premesse da cui scaturì la bicamerale e la qualità del progetto riformatore che ne scaturì........
continua su mondoperaio
mercoledì 24 novembre 2010
Tempo di Haiku
Seguono un video di Carla Vasio e una raccolta di antichi H. giapponesi.
domenica 21 novembre 2010
Una teologa ruvida
p.a.
martedì 16 novembre 2010
Meritocrazia delle chiacchiere
Comincia una settimana decisiva per il futuro dell'università e del Paese. Cade o non cade il governo Berlusconi? Da questo dipende la sorte della legge Gelmini. Speriamo che domenica prossima sia un giorno di festa e si possa esultare sia per l'abbandono del Cavaliere sia per la cancellazione di un progetto dannoso.
Lavoreremo col massimo impegno in Parlamento. Occorre tenere alta la mobilitazione contro la legge. E soprattutto si deve continuare a smascherare la propaganda che l'ha sostenuta e che purtroppo è penetrata in profondità nel senso comune accademico. Ancora oggi mi sento dire da tante persone in buona fede che la Gelmini introduce la politica del merito. Purtroppo è vero esattamente il contrario. Il merito è solo nella straordinaria capacità del governo di raccontare un falso clamoroso. In tutti i sensi, è il trionfo della Meritocrazia delle Chiacchiere.
Per dimostrarlo ho provato a elencare una serie di fatti relativi sia al disegno di legge sia alla gestione corrente del ministero. Se vi sono errori o eccessi vi prego di correggerli, se vi sono dimenticanze vi prego di integrare le informazioni, se proprio non condividete neppure l'impianto del documento ditemelo sinceramente.
Insomma, vi propongo una sorta di gioco collettivo, una sorta di Wikipedia dello smascheramento mediatico o, se preferite, una sorta di Aufklärung dell'ideologia governativa.
1. C’è poco da valutare se vince la burocrazia
Che il ddl sia in contrasto con la politica del merito risulta evidente già a un sommario sguardo del testo. Infatti, se fosse approvato la mole spropositata di norme, circa 500 disposizioni e 1000 regolamenti, avrebbe l'effetto di rafforzare la convergenza degli atenei verso un modello unico, quello appunto preferito dal legislatore, che non è detto sia il più efficace. Una volta realizzata questa uniformità normativa non si capisce cosa si dovrebbe valutare. La qualità di un ateneo, ad esempio, dipende per grande parte dai suoi professori, ma se la politica delle risorse umane è ingabbiata in un pesante apparato normativo le performance risulteranno inevitabilmente molto appiattite. Al contrario, la politica del merito presuppone la promozione di differenze e di innovazioni che poi si espandono per emulazione e per competizione, innalzando la qualità del sistema. Tutto ciò può avvenire solo con una legislazione mite che lasci ampi spazi alla realizzazione di diversi modelli universitari.
Questa prospettiva di differenziazione è in atto in tutto il mondo ma non ha mai avuto molta fortuna nel nostro paese e anche da sinistra è stata vista con diffidenza. Pesa una malintesa concezione egualitaria che dovrebbe riguardare le condizioni di accesso ma non la disponibilità dell'offerta.
A ben vedere questo è il principale problema italiano. Il vecchio modello dell'università di élite che funzionava dignitosamente con pochi studenti è stato tirato come un elastico per rispondere a una popolazione studentesca dieci volte maggiore senza che intervenisse nessuna sostanziale differenziazione. Ed è molto difficile che tutti gli atenei sappiano fare bene le stesse cose, dalle lauree brevi ai dottorati, dalla didattica alla ricerca avanzata. La vera riforma avrebbe dovuto promuovere una nuova concezione dell’università pubblica con un'offerta molteplice di percorsi formativi e diversi assetti dell’attività di ricerca.
2. Il blocco dell'Anvur e del Civr
Il ministero ha bloccato qualsiasi attività di valutazione. In due anni e mezzo la Gelmini non è riuscita a presentare neppure un dato sulla produttività scientifica degli atenei e non sarebbe ormai in grado di farlo neppure se malauguratamente dovesse concludere il mandato alla scadenza prevista del 2013. In due anni e mezzo il ministro non è stato capace neppure di attivare l'Anvur che pure era già stata legiferata dal precedente governo. Ha perso inutilmente tempo nell'incertezza se abrogarla o approvarla, per poi concludere di mantenerla in vita riducendone però l'indipendenza rispetto al ministero. Il buon senso avrebbe voluto che nel frattempo si consentisse al Civr di proseguire le valutazioni dopo la buona prova data da questo organismo nel rapporto relativo agli anni 2001-2003, che ancora oggi rimane l'unico ranking disponibile sulla qualità scientifica dell'università italiana. Anche in questo caso ci sono voluti due anni per fare il decreto che autorizzava il Civr a riprendere le attività, ma dopo qualche mese c'è stato di nuovo un blocco. Che cosa è successo? Il primo passo della procedura di valutazione prevede la nomina dei valutatori per le diverse aree disciplinari. Qui viene da pensar male. Forse la lista predisposta dal Civr non è piaciuta al ministro e vorrebbe modificarla? Se si pretende di controllare i valutatori in sede politica è finita prima di cominciare la valutazione indipendente. Se anche l'Anvur dovesse funzionare in questo modo sarebbe meglio non farne niente.
( leggi il testo completo su facebook )
giovedì 11 novembre 2010
Quei geniali creativi dell'Oulipo
Il 24 ottobre nel 1960, nella cantina del " Vero Guascone" si ritrovarono sette amici matematici che avevano a cuore la letteratura, così nacque OULIPO ovvero " OUVROIR DE LITTERATURE POTENTIELLE". Questi sette amici erano Françoi Le LInnais , Rayamond Queneau, Jacques Bens, Claude Berge, Jacques Ducheteau, Jean Lescure e Jean Queval.
Ancora oggi nel gruppo dell' OULIPO, si continuano a trovare e a produrre nuove forme e strutture letterarie. OULIPO è stato fondato per mischiare la matematica insieme alla letteratura.
Un esempio di unione tra matematica e letteratura è presente nel poema "Cent mille miliards", dove sono presenti, 10 sonetti con le stesse rime e una struttura grammaticale tale che ogni verso di ciascun sonetto è intercambiabile con ogni altro verso nella stessa posizione. Un altro esempio è la poesia di Louise de Vilmorin, ove ciascun verso della prima strofa ha la stessa lettura fonetica del corrispondente verso la seconda strofa:
Au long des mois
Par la Savoie
Six Reines, alors riant,
Paraissaient.
L'une, saule et nue
et tard, osa ces mots:
"S'en va l'heure
Oh, l'onde et moi"
parla sa voix,
quot, Sirenes à l'orient
paressaient!!!
Lune sous les nuèes,
ta rose a ses maux
sans valeur!!
Le teorie oulipistiche, hanno influenzato la struttura di alcuni libri di Italo Calvino, come ad esempio la "cornice" utilizzato per legare vari brani di "se una notte d'inverno un viaggiatore".
Un altro punto oulipiano è il principio della campionatura della potenziale molteplicità del narrabile che sta alla base de "il castello dei destini incrociati".
Calvino, purtroppo, non ha molti eredi nell'attuale scenario della letteratura italiana.
M.P.
mercoledì 10 novembre 2010
Psicosi da “nomination”
Ma un brivido mi ha percorso la schiena leggendo l’articolo di Sandra Amurri su Il Fatto Quotidiano di oggi, dove si parla con entusiasmo dell’efficacia e della possibile “spendibilità” mediatico-politica della coppia Vendola-Saviano, tale forse da placare l’ansia gerontoclasta del giovane Renzi.
E lascia perplessi il riferimento alle “capacità narrative” dei suddetti: quasi che ai fini di un autentico rinnovamento del PD e della sinistra in generale fosse più necessaria la gratificante ondata emotiva prodotta dai due abili affabulatori piuttosto che il lavoro sotterraneo, a volte sottotono ma costante, talvolta non sfavillante ma apprezzabile; insomma, il “fare politica” condotto dal segretario Bersani.
Forse lo slogan “Rimbocchiamoci le maniche” non sarà dei più travolgenti e innovativi, ma credo sia preferibile all’accattivante quanto inconsistente proposta dei sedicenti “Comizi d’amore”.
La passione e l’impegno di Saviano e Vendola ci sono ben note e la sinistra, anzi il Paese, ne ha certo bisogno come linfa rigenerante. Ma attenzione a incoronarli salvatori della patria. Non esponiamo l’uno e l’altro a logiche di “nomination” stile Grande Fratello, che oggi decretano vincente la stessa persona che domani potrebbero distruggere e dimenticare.
Evitiamo soprattutto il sempre perdente populismo di sinistra.
DaS
domenica 7 novembre 2010
Tea party e liberali di casa nostra
Forse è venuto il momento di dire che una banalità, anche se ammantata di spirito liberale e liberista, rimane una banalità. E’ il caso dell’articolo di Piero Ostellino (Corriere della sera, 6 novembre) dedicato ai Tea Party. Tutto fondato sul solito refrain dei tentacoli keynesiani che minaccerebbero la bella e dinamica società civile americana. E allora, secondo lui, ben venga la protesta anti-establishment dei Tea Party che dovrebbe far riflettere anche la sinistra di casa nostra.
Tuttavia, la “narrazione” liberista dovrà pur fare i conti con la realtà. Due dati: il numero degli americani poveri è tra il 13 e il 14% della popolazione, corrispondente a circa 43 milioni di persone (dato stabile dal 1970); prima della riforma di Obama i cittadini privi di assicurazione sanitaria ammontavano a 50,7 milioni. La retorica snob piena di ostilità al capitalismo, come la definisce Ostellino, agisce in realtà in una wasteland su cui si sono abbattuti decenni di politiche mercatiste (con la parziale eccezione clintoniana). Negli anni ‘80 e ‘90 le distanze sociali sono abissalmente aumentate, tanto che il carattere inclusivo e sostanzialmente livellato della società americana, con il suo immenso ceto medio, è divenuto un pallido ricordo.
Soluzioni? Né la spesa in deficit, né il tassa e spendi caro alla vecchia sinistra europea degli anni d’oro della socialdemocrazia. Ma neanche il solito mantra Reagan-Thatcher-Friedman, vecchio di trent’anni. I Tea Party interpretano l’ennesima ventata populista destinata ad alzare molta polvere, ma a costruire poco. Sarah Palin e Catherine O’ Donnel, oltre al look cotonato, non sono lontane dal ringhio delle nostre Santanché. Ne scaturisce un impasto di ultratradizionalismo, anarco-capitalismo, edonismo à la Billionaire.
Però ci vuole altro per scandalizzare i raffinati liberali dei nostri giorni perché un Einaudi francamente con i Tea Party non ce lo vediamo. Per loro è tutta salute, tutta energia prodotta dal basso contro burocrati e sinistra anticapitalistica. In Italia c’è da immettere ancora molto spirito liberale (e competitivo) nel sistema: dai pubblici servizi locali, alle professioni, all’università. Ma c’è anche bisogno di usare la mano pubblica per consentire a tutti se non di partire dalle stesse condizioni, almeno di ridurre le distanze. E’ quell’approccio lib-lab su cui parte della sinistra italiana si era incamminata negli anni ’80 e che oggi fa tanta fatica a tradursi in un progetto spendibile elettoralmente.
La sinistra europea ha messo negli anni ‘90 in discussione lo statalismo ed oggi è in difficoltà perché in tempi di globalizzazione parlare di libertà ed eguaglianza non è facile. Ma certi liberali lascino a casa vecchi slogan. Di “Servire il mercato” non se ne sente proprio il bisogno.
p.a.
giovedì 4 novembre 2010
Joe the Plumber: chi era costui?
DaS
martedì 2 novembre 2010
Democrazia Usa
mercoledì 27 ottobre 2010
Roma. La questione urbanistica
Prima parte
Seconda parte
venerdì 22 ottobre 2010
Una metafora
GNF
martedì 19 ottobre 2010
Ariosto in Garfagnana: la difficoltà italiana di essere nazione
Con questa sua esemplare fatica letteraria il professor Gatto ricostruisce con la sua “Introduzione” alle “Lettere ” la vita trascorsa da Ludovico Ariosto nella Garfagnana dal 1522 al 1525. Questo lavoro ha il merito di riproporre e di riconsegnare alla nostra attenzione una produzione epistolare che è documento prezioso per conoscere l’Ariosto nella sua vita e nel suo agire quotidiano ma anche quello di fornirci un materiale, un documento che ricostruisce il piccolo mondo in cui deve agire il poeta, lontano in tutti i sensi dai palazzi del potere ma testimone e protagonista delle vicende di un piccolo territorio italiano nella prima metà del XVI sec. .
Il riesame che Gatto ci ripropone infatti è un’analisi accurata e fedele anche nella loro cronologia delle lettere che l’Ariosto scrive durante la sua permanenza e il suo incarico di governatore in Garfagnana al duca d’Este Alfonso I e ai vari organi di governo e di giustizia dei territori limitrofi( in particolare a quello di Lucca e spesso anche a quello di Firenze). E proprio questo sguardo dall’interno permette a Gatto di attraversare e riguardare da vicino la vita e gli affanni quotidiani dell’autore del Furioso e di vedere concretamente momenti e qualità e difficoltà del suo agire che arricchiscono il quadro biografico del poeta e narratore ferrarese.
Questa ricca e preziosa disamina quindi consente di fare innanzi tutto alcune considerazioni sulla personalità dell’Ariosto e sul modo in cui egli svolge la sua attività di governatore: attenzione ai diritti dei più deboli, vigile contro i soprusi dei violenti, pronto alla denuncia e a perseguire i delitti e gli assassini, fortemente preoccupato per il pericolo di diffusione della peste, o per il rischio di carestia. Scrive Gatto: “... l’alta coscienza del compito affidatogli, la rigorosa osservanza della legge in ogni suo provvedimento, il senso di umanità che costantemente lo colloca a fianco degli umili e degli offesi- “i poveromini”- ai quali mai viene resa giustizia…” (pag. 83)
Purtroppo però il governatore è in difficoltà per le scarse forze di cui dispone e da qui le richieste di aiuto al duca Alfonso che non sembra dargli molto ascolto, e solo alla fine del suo mandato si decide ad inviare rinforzi al suo governatore; e da qui la ripetuta richiesta di azioni concertate con le autorità dei territori confinanti, Lucca e Firenze in particolare, nell’intento e nella speranza di perseguire con maggiore efficacia i malfattori, tentativi che però per molto tempo non sembrano sortire grandi risultati.
Emerge quindi da queste lettere e dalla disamina attenta che fa Gatto un aspetto che va oltre la vicenda personale e di governo dello stesso Ariosto e che lui stesso ci racconta , e cioè che questa situazione di delinquenza diffusa, accanto alla frammentazione politica e giuridica del territorio, permette ai banditi di spostarsi ed emigrare tra un confine ed un altro trovando rifugio, mentre le varie autorità di governo –divise tra Ferrara, Lucca, Firenze e anche la Roma papalina/medicea- sono indecise se non incapaci di un vero intervento per risanare quel territorio, quando non addirittura complici con i delinquenti anche per oscure convenienze politiche.
E questa situazione porta conseguenze pesanti per il commercio, a partire da quello del sale che già aggravato dal pagamento dei dazi tra le varie dogane è ora messo in pericolo a causa delle rapine dei banditi, o da quello delle castagne e delle merci in generale, e diffonde, rende possibili ruberie a danno della proprietà privata, furti della legna negli appezzamenti privati o degli importantissimi animali da soma e da trasporto, ruberie dei beni personali quando non l’assassinio dei proprietari, e varie attività di natura delinquenziale che rimangono spesso impunite, rendendo quanto mai difficile la distribuzione e la diffusione delle merci in generale, e vieppiù insicura la vita i commerci il lavoro della gente perbene .
Insomma questo esemplare lavoro di Gatto ha il merito di riproporre alla nostra attenzione questo libro di testimonianze del grande Ludovico e di cogliere quindi di più e meglio la sua personalità, il suo modo di agire, il suo sguardo sul mondo tanto disincantato nel Furioso quanto attento, tenace, imparziale e severo quando si fa giudice e governatore. Ma oltre a ciò ha un secondo merito “indiretto” potremmo dire: ci testimonia e ci permette di capire una volta di più come nel Bel paese le divisioni territoriali, esistenti sin da quando il poeta scrive queste lettere, e persistenti per secoli a venire, con tanto di dazi per il commercio e con tante rivalità di natura politica tra i vari governanti della penisola divisi anche nelle alleanze interne e con le potenze straniere( tra il partito italiano e quello filo francese), e la mancanza quindi di un governo unitario e di un mercato nazionale unico abbiano ritardato la formazione di una classe dirigente e di una nascente borghesia capace di promuovere un vero sviluppo capitalistico, così come avveniva nelle nazioni vicine a cominciare dalla Francia.
Per questo, ancora, per quella frammentazione territoriale e per quelle divisioni politiche tra gli “Stati italiani” di cui “Le lettere” sono esemplare testimonianza e anche denuncia, i destini di una patria nazionale(o qualcosa del genere) vengono rinviati e ritardati alla seconda metà dell’ottocento lasciando per secoli le genti d’Italia sotto il dominio straniero o sotto odiosi nazionali governi tirannici.
F.S.
domenica 17 ottobre 2010
PD e classe operaia
(1)
(2)
domenica 10 ottobre 2010
Un nuovo Walter all'orizzonte ?
E se Veltroni si avviasse ad essere un po' meno Veltroni, dando così un utile contributo al Pd ? Lo lasciano sperare le mosse delle ultime settimane, almeno dopo l'efficace disinnesco della lettera dei 75 operato da Bersani. Le uscite sul papa straniero e l'assenza di leadership sembrano ormai in archivio per essere sostituite da un'inedita attenzione a questioni programmatiche irrisolte. Qualche esempio: se i veltroniani rilanciano l'elaborazione di Ichino sul contratto unico e sulla decentralizzazione della contrattazione, se scelgono di puntare su una proposta indigesta al vocabolario tradizionale della sinistra come la politica migratoria selettiva, se sulla scuola evitano di andare a rimorchio delle giaculatorie sui tagli per porre l'accento sulla misurazione esterna della qualità del servizio offerto dai singoli istituti, se di fronte al rituale autunno caldo di scuole e università, si richiama il Pd alla sua dimensione di partito riformista non timoroso di essere scavalcato a sinistra, allora il quadro cambia.
Anche sulla politica fiscale si può rilanciare la proposta di riduzione dell'Irpef, su cui sta insistendo Bersani da mesi, da accompagnare però con una corrispondente riduzione della spesa pubblica. Tema quest'ultimo decisamente meno frequentato dal segretario democratico. Tutto ciò rimanda ad un profilo politico molto lontano dal volto suadente ed ecumenico proposto in questi anni da Veltroni e ancor di più dai "comizi d'amore" del vate pugliese, almeno quando indossa le vesti di candidato alla leadership del centro - sinistra. Perché il bilancio del Vendola pugliese è ben più sostanzioso e appetibile della "narrazione" piuttosto melensa offerta nella versione nazionale. Veltroni potrebbe continuare in questo percorso di allontanamento da se stesso sparigliando così il tradizionale gioco delle fazioni interne al PD che vede oscillare periodicamente il pendolo tra richiamo alla “responsabilità” da parte dei dalemiani e confusi richiami al nuovismo. Sarà pure una speranza mal riposta, ma si rimane sconsolati di fronte ad alcune uscite delle nuove leve. Che dire dell'ennesima boutade demagogica, questa volta di Civati, che all'assemblea di Busto Arsizio ha presentato un ordine del giorno per la rottamazione dei dirigenti di lungo corso ? E allora se nasce un “nuovo” Walter coraggiosamente riformista, anche sotto le sembianze di una corrente alla luce del sole che a lui fa riferimento, può essere una buona notizia per il Pd e per i soliti quattro gatti lib – lab della sinistra.
p.a.
mercoledì 6 ottobre 2010
Dalla creazione allo Ior
Le Scritture descrivono piuttosto bene la prima fase di sviluppo della materia che si organizza in modo sempre più complesso, dando luogo ad un insieme di forme possibili, inorganiche ed organiche, senza una vera soluzione di continuità. Le “giornate bibliche” possono essere lette, infatti, come fasi dell’evoluzione, al culmine delle quali, secondo le Scritture, appare l’Uomo.
Questi è tale, e non più animale, in quanto ha “coscienza”. Il suo effetto è di spingere l’Uomo ad organizzare le sue comunità, non accetta più la condizione animale e crea nuovi mezzi e nuove forme sociali per difendersi e crescere.
Ma, questo processo, fin dal suo inizio, inverte la polarità dell’evoluzione: dalla diversificazione all’integrazione. Appena apparso, infatti, l’Uomo avvia la crescita numerica delle sue comunità, procede con l’addomesticazione di piante ed animali e costruisce i suoi villaggi utilizzando quanto la Natura gli mette a disposizione. Con questi mezzi è andato, finora, organizzando società sempre più complesse.
Oggi la dinamica del processo inizia a manifestarsi alla scala planetaria. Infatti, è andata crescendo la velocità con la quale si sviluppa l’integrazione, è aumentata esponenzialmente la complessità delle comunità umane, si è proporzionalmente ridotto il numero delle sue unità geo-politiche, è andato crescendo il numero di elementi della Natura integrati nelle comunità a guida umana.
Sembra quindi evidenziarsi un fine teleologico del processo: l’integrazione dell’esistente in un Uno di scala superiore.
Questi, che si vada sviluppando da un’inseminazione primigenia del pianeta o che emerga dal moto proprio della materia potrebbe essere il risultato atteso della Creazione. Se questa è promossa da colui chi in molti chiamano Dio, l’Uno è suo figlio, eventualmente Lui stesso che si riproduce.
Quindi, che sia quello dell’una o dell’altra religione l’Uno di scala superiore potrebbe essere il risultato del processo nelle sue due fasi: incremento di diversità nella prima e reintegrazione nella stessa nell’Uno nella seconda. In altre parole, la prima fase l’evoluzione produce le componenti per l’edificazione dell’Uno stesso.
Non sappiamo, però, qual è la scala dell’Uno figlio di DIO, se sia il pianeta, una volta integrato a singola forma di vita, eventualmente pronta a colonizzare le galassie, ovvero se sia quella delle stelle stesse.
Comunque, nella consapevolezza del processo, le Chiese si sono fatte carico di guidare le comunità per garantire che lo sviluppo dell’organizzazione dell’UNO proceda in modo omogeneo e sostenibile, senza scarti tali che possano arrestarla, quindi attendendo che l’adattamento della specie uomo continui senza salti nel futuro di complessità non ancora raggiunte ma anche senza ritorni a livelli di complessità inferiori, non più idonei alle comunità.
Peraltro, le aperture già avviate per arrivare alla riunione delle Chiese d’origine cristiana ed il dialogo avviato con le altre Religioni monoteiste e non solo, indicano come la Chiesa globale sia già in corso di definizione.
Data la vastità del compito c’è da chiedersi se l’Istituto per le Opere di Religione ne sia uno strumento indispensabile o meno.
F.P.
domenica 3 ottobre 2010
Sinistra ed identità n. 2
Le comunità, finché non interviene una catastrofe, vivono un processo dinamico di ampliamento che implica crescita numerica delle loco componenti, sviluppo tecnologico, adattamento umano, incremento di organizzazione, inclusione, migliore distribuzione del benessere. Questa dinamica è stata chiamata progresso.
Il cuore dell’essere sociologicamente di sinistra è nel saper vedere le esigenze della comunità oltre le proprie, quindi nel sostenerne il progresso e nel partecipare, responsabilmente, all’edificazione di un assetto sociale che valorizzi le opportunità tecnologiche e culturali disponibili.
Oggi quanto detto, tra gli altri aspetti, implica il sostegno alle tecnologie che non comportano rischi per le comunità, alla creazione delle stesse alle scale coerenti con i mezzi di comunicazione disponibili, quindi all’inclusione delle realtà ambientali, dei popoli, delle culture e delle nazioni che i mercati mettono in relazione e coinvolgono nello sviluppo….. ed alla gestione responsabile delle dinamiche commerciali, sociali, culturali e politiche, che il processo stesso determina.
Nella fase evolutiva in atto questa posizione non è facile.
Infatti, in primo luogo, la scala e l’idea stessa di assetto sociale possibile non sono evidenti: la società utopica è difficile da immaginare. Non è affatto chiara la sua fisionomia, ne in termini tecnologici, ne culturali, sociali e politici.
Inoltre, la scala della lotta politica è ancora nazionale, mentre l’assetto possibile e necessario è globale. L’insieme delle forze umane che dovrebbero crearlo è però, ancora frammentato nelle molteplici realtà locali.
Peraltro, alle scale nazionali, molte delle realtà sociali la cui inclusione era il fine dei progressisti di ieri, oggi difendono interessi consolidati e questo chiedono di fare ai loro rappresentanti.
Le loro organizzazioni tradizionali si trovano, quindi, nella difficile condizione di richiamarsi a valori progressisti e difendere al contempo interessi conservativi, spesso corporativi.
Inoltre, non può essere progressista chi vive ubriaco delle aspettative di consumo sollecitate dai media, né, quindi, chi vive nella paura di non avere identità, di non avere lo status auspicato, né chi si sente minacciato da ogni “altro”, che sia umano o non.
Gli interessi d’inclusione potrebbero essere espressi dagli immigrati, ma questi ancora non hanno capacità di dialogo con le forze politiche, ne queste sanno ancora rapportarsi con le loro comunità.
Tanto meno possono esprimere consenso le realtà ambientali che l’espansione incontrollata coinvolge nello sviluppo delle comunità umane.
Inoltre, la lungimiranza necessaria a vedere l’evolvere fisiologico del processo di costruzione dell’assetto possibile, quindi, la tenacia e la pazienza necessarie a sopportarne i tempi, conservando l’impegno della sua edificazione, non sono facili da mettere in atto.
Coerentemente l’immagine del progressista non va di moda quanto è andata in decenni addietro, non paga, quindi, non interessa a chi sposa determinati comportamenti solo se gli offrono un profitto d’identità e di opportunità.
Quindi, la confusione di modelli e la difficoltà a proporre alle categorie sociali un progetto d’inclusione aperto alla scala necessaria rendono oggi le “azioni” delle forze tradizionalmente progressiste poco appetibili.
Per tutto quanto detto fare questa politica oggi non è affatto facile, indipendentemente dall’abilità di rappresentanza messa in atto dai conduttori delle forze stesse.
Sono, però, dell’opinione che inseguire gli elettori nelle istanze populiste cui oggi gran parte degli elettori è più sensibile sia per le forze tradizionalmente “di sinistra” una politica suicida, infatti non solo quest’atteggiamento contraddice l’identità stessa progressista, ma c’è inoltre chi lo sa fare meglio, senza mali di pancia.
Penso, invece, che la crescita di consapevolezza della difficoltà stessa della politica e dell’identità progressista possa essere d’aiuto nel coinvolgere chi può vedere i processi e contribuire all’edificazione del progresso possibile.
F.P.
giovedì 30 settembre 2010
Ed, David e l'italia
Il fratello sconfitto, David (45), ha inviato una lettera alla sua constituency di South Shileds nella quale annuncia la volontà di non assumere incarichi nel governo ombra. David d’ora in poi si dedicherà allo studio della politica internazionale e alla rappresentanza del suo collegio elettorale. David si è messo disciplinatamente al servizio del suo partito, né sembra voglia fondare fondazioni o organizzare correnti. Il confronto con i nostri leader è ingeneroso e forse inutile. Ma poiché gli esseri umani hanno gli stessi pregi e difetti a tutte le latitudini, c’è da ritenere che la ragione della differenza tra italiani ed inglesi sia da ricercare nella politica più che nell’antropologia.
Finché non avremo un sistema istituzionale (primarie, collegi elettorali, governo ombra nella versione inglese, ma funziona anche il pacchetto tedesco) efficiente che funga da tagliola nei riguardi degli sconfitti, dovremo rassegnarci al trionfo dei personalismi. Insomma, ci dovremo abituare a leader sconfitti che pretendono di dare la linea a chi ha vinto su di loro o ad auto candidature noncuranti delle poche regole che ci sono (lo statuto del Pd esclude Chiamparino dalla gara).
Da noi nessuno può pronunciare parole come queste di David: “Any new leader needs time and space to set his or her own direction, priorities and policies.Ed needs a free hand but also an open field”. Semplicemente perché non vi è nessuna buona ragione che gli suggerisca di pronunciarle.
p.a.
Nel video una dichiarazione di David in cui sottolinea l'impegno per la scuola pubblica e il ruolo del governo ombra.
domenica 26 settembre 2010
La tranquilla normalità del Labour
lunedì 20 settembre 2010
Oltre lo schermo
Entrambe nel loro ultimo numero hanno parlato di un seminario svoltosi a Roma nel giugno scorso ed avente ad oggetto il modo in cui il socialismo europeo può pensare di dare una risposta alla crisi economica internazionale e da lì provare a rialzare la testa. Da segnalare la relazione introduttiva di Salvatore Biasco imperniata sul ritorno ad incisive politiche pubbliche nel segno del superamento dei dogmi neoliberisti da cui la sinistra europea vincente nello scorso decennio si sarebbe fatta ammaliare. Biasco, e con lui altri relatori, propone un nuovo interventismo pubblico nel segno del primato della politica da svilupparsi entro un rinnovato contesto europeo. La premessa è individuata nell’estensione della costruzione europea dal livello economico a quello politico.
Chi scrive ha più di una perplessità sulla validità di questa ricetta, di cui non si capisce l’effettiva distanza dal tradizionale tassa e spendi della sinistra pre Blair; oppure sulla sua utilità nel superare l’annoso problema italiano di un costo del lavoro per le imprese quasi pari a quello tedesco con salari inferiori del 40%. Per non parlare del peso delle tante corporazioni. Ma non è questo il punto.
Sull’ultimo Mondoperaio vi sono articoli puntuali e documentati sul Mitbestimmung, il modello tedesco di partecipazione dei sindacati nei consigli di sorveglianza delle aziende, sulle proposte Ichino-Boeri riguardanti il contratto unico e, udite udite, sulla retorica anti urbana di certo ambientalismo (in un pezzo di Guido Martinotti).
Tutt’altro che chiacchiere. Temi difficili, si dirà, poco adatti al chiacchiericcio di Porta a Porta o Ballarò (Santoro è un’altra cosa), ma di cui il leader di un partito riformista come il Pd non può non parlare. Perché se si trova il tempo per commentare l’ultima boutade di Veltroni, bisogna trovarne il doppio per parlare di cosa si vuole fare una volta al governo. Che si aguzzino gli ingegni, magari escogitando qualche inedita forma di comunicazione. Ci sono tanti
professionisti del settore che potrebbero essere d’aiuto. Bersani potrebbe iniziare a non rispondere più quando lo interpellano sulle solite banalità ed andare a ruota libera con dati e proposte di governo. Forse all’inizio lo prenderebbero per matto, ma poi potrebbe comunicare a chi lo ascolta un vago senso di soddisfazione, se non di piacere, assente nelle sue ultime, cupe perfomance televisive.
p.a.
La città è più verde della campagna
York city che in campagna.
lunedì 13 settembre 2010
Due letture di "Canale Mussolini"
Canale Mussolini, il romanzo di Antonio Pennacchi vincitore del premio Strega, è un libro che affonda le radici nella storia italiana. Racconta la vicenda di una famiglia di coloni padani dall’inizio del secolo al secondo dopoguerra e della loro granitica, irriducibile adesione al fascismo. E’ questo il punto forte della narrazione. La descrizione dal di dentro di come il fascismo fosse compenetrato alla dimensione materiale della piccola borghesia padana (i Peruzzi sono mezzadri). Secondo Pennacchi i Peruzzi, combattenti tra gli arditi nella prima guerra mondiale e successivamente vittime dei patti “vessatori” imposti dalle leghe agrarie socialiste ai mezzadri, non potevano non dirsi fascisti. Un’adesione istintiva, come quella di tanti italiani, che gli permise di trovare nel regime la risposta semplificante e comoda ad una realtà che ai loro occhi si andava ingarbugliando troppo.
Di qui l’incondizionata fiducia dei Peruzzi nel Duce e nel loro mentore e conterraneo, Edmondo Rossoni. Il gerarca ferrarese dà loro la terra e gli offre l’opportunità di emigrare nell’Agro pontino, appena bonificato. Come novelli puritani chiamati a colonizzare territori selvaggi, i contadini venuti dal nord ingaggiano una dura competizione contro “i marocchini”, gli autoctoni ostili, oppressi quanto e più di loro da una fame secolare.
Ma dovranno lottare anche contro la malaria, le alluvioni, gli investimenti sbagliati, le storture della burocrazia di regime. Il punto è che i Peruzzi sono fascisti in carne ed ossa e persino simpatici, con i quali è impossibile non solidarizzare. Il fascista che non ti aspetti. Viene in mente, come loro opposto, il personaggio dello squadrista rampante impersonato da Donald Sutherland in Novecento di Bertolucci, un piccolo borghese perverso e disumanizzato che è facile odiare.
Anche Pericle Peruzzi, il giovane maschio capobranco, durante una spedizione punitiva uccide un prete in quel di Comacchio. Ma lo fa senza pensarci troppo, rispondendo a quella legge della violenza che regola i rapporti umani di cui lui per primo è vittima. Quell’atto non avrà grandi conseguenze, Pericle continuerà ad essere convintamente fascista ed, anzi, ad ottenere per quei suoi antichi servigi un trattamento di favore per sé e la sua famiglia quando si dovranno assegnare le terre in Agro pontino.
E’ qui che il romanzo si dimostra in grado di raccontare una sua “verità” che fa della storia dei Peruzzi la storia di un clan abbarbicato nella difesa del suo interesse. Il contrario di una dimensione epica. In fondo, i Peruzzi sono ben calati nei secoli di storia italiana con i
loro pregi e non pochi difetti. E in loro non difetta certo l’opportunismo.
Appaiono più vicini agli italiani descritti in film come La grande guerra o Tutti a casa, piuttosto che all’epos, quello sì, di Roma città aperta o de La terra trema, con quella forte scommessa sul ‘noi’. Il che nulla toglie al romanzo di Pennacchi che può essere letto come
un capitolo di storia degli italiani dal punto di vista di chi (almeno politicamente) ha perso.
p.a.
Caro Paolo,
la tua recensione su "Canale Mussolini" non mi ha convinto. E'- il libro dal mio pdv- una rivisitazione del ventennio del fascio e del mito dei fascistissimi, della guerra coloniale, della bonifica per una rivalutazione e riabilitazione del periodo e dei suoi protagonisti, tutti contadini "spontanei", tutto condito in una epopea contadina col/nel mito sacrale della terra e della terra coltivata, pascolata, trainata dalla fatica industriosa della famiglia Peruzzi, nonna e nonnino compreso. Solo che l'eroe della narrazione è lo zio Pericle, riconosciuto stimato e considerato dal fascio locale e non, per meriti acquisiti sul campo, e cioè perchè spara sulle case del popolo, ammazza a bastonate il parroco dissidente,( per ordine del fascio, e non solo di quello locale ma per suggerimento dall'alto, che confessa piangente il delitto alla fanciulla che l'aveva sempre respinto e quindi il delitto si colora di rosa e di confetti) ed è pronto a tirar fuori il coltello nelle risse tra poveri. E la voce narrante, un nipote della flamiglia, te lo propone con simpatia, come un sano ed energico contadino, buon lavoratore eccetera eccetera, che infila in vicende certo un pò burrascose e movimentate, forse anche deprecabili, ma piene di avventura ed appassionanti, alla fine perchè no eroiche (magari con qualche contaddizione che per decenza viene velocemente infilata in commento). E il linguaggio della voce narrante è quello che tiene il tutto, perchè è altrettanto "spontaneo", ingenuo, semplice, immediato, direi proprio parlato con frequenti usi dialettali che rendono le vicende e il protagonista e i protagonistii- compreso lo zio Adelchi eroe d'Africa- tutto vero autentico condivisibile "simpatico". E questa è l'abilità vera dell'Autore: siamo di fronte a testimonianze vere e proprie che raccontano loro, con la loro voce, la loro appasionante e bella storia fatta di fascio e di terra . E così tutto il famigerato "ventennio" viene impacchettato in una autentica rivalutazione, comprese le migliaia di morti delle paludi pontine che vengono citati più che ricordati come "effetti collaterali" della magnifica bonifica fatta dal Duce, altro mito riprodotto a fianco della famiglia Peruzzi. Insomma, il libro e la sua premiazione mi sembrano un'abile operazione culturale e politica della Mondadori. Finito questo "pippardone" devo però precisare che quello che ti scrivo sin qui l'ho ricavato dalle prime trecento pagine, perchè il libro non l'ho ancora finito. Il seguito a prestissimo. Inoltre, ti devo aggiungere che la rivista "Left", in una sua recensione del 27 Agosto N.3 dal titolo "L'epos verace di Pennacchi" pag. 59, condivide in sostanza il tuo punto di vista.
F.S.
martedì 7 settembre 2010
Provincellum ? No grazie
E allora dove sarebbe il vantaggio rispetto alla legge attuale ? Nella possibilità per l'elettore di assegnare la preferenza, seppure con una scelta limitata ad un numero ridotto di nomi, il che spingerebbe i partiti a candidature radicate sul territorio superando la “nomina” implicita nella lista bloccata. Un sistema percepito come vantaggioso dall'Udc che potrebbe sfruttare il radicamento territoriale che alcuni suoi notabili vantano nelle regioni meridionali. Ma tutt'altro che convincente. Innanzitutto, perché manterrebbe in vita il premio di maggioranza che, applicato sul piano nazionale, è un formidabile incoraggiamento per le coalizioni arlecchino.
Inoltre, per l'ennesima volta si ricorrerebbe ad un ibrido privo di qualsiasi coerenza istituzionale. Si prenderebbe un pezzo di un sistema, rigettando ciò che non piace: l'elezione diretta dell'esecutivo, da sempre giustamente osteggiata dall'Udc e sconosciuta ad ogni democrazia evoluta. Altre sono le esperienze da prendere in considerazione: tedesco o uninominale maggioritario nelle due versioni inglese o francese. E partendo da queste opzioni costruire un sistema istituzionale coerente. In materia elettorale Casini e il suo partito hanno già qualcosa da farsi perdonare. Si chiama porcellum.
p.a.
giovedì 2 settembre 2010
Voci dalla Chiesa italiana
1a parte - nuovo concilio
lunedì 30 agosto 2010
Le riforme scendono sulla terra ?
Vuoi vedere che parlare di riforma elettorale non è esercizio per iniziati? Una conferma giunge da quanto sta finalmente avvenendo nel Pd dopo la lettera di Bersani a Repubbica. La proposta dell’alleanza costituzionale ha un senso se è tenuta insieme da un’idea comune sul post-Porcellum. E se si aggiunge che l’argomento che può unire, seppure a tempo, centristi vari, Casini, il Pd-Ulivo è il modello tedesco, le conclusioni sono presto tratte.
E a trarle ci hanno pensato anche gli ulivisti – veltroniani – ex referendari del Pd che hanno dato vita ad un gruppo trasversale pro uninominale maggioritario(www.uninominale.it). Bene hanno fatto, così come bene faranno i sostenitori del modello tedesco ad uscire allo scoperto e condurre una limpida battaglia politica. Poiché non si parla di quisquiglie, ma della qualità della nostra democrazia, sul tema non sono possibili furbate o posizionamenti tattici. Si vuole il modello neo parlamentare in vigore in Germania, compreso l’assetto federale, o si preferiscono le soluzioni Westminster, francese o presidenzialista all’americana connesse all’uninominale maggioritario? Chiarendo che la prima non produce affatto bipartitismo, la seconda unita al doppio turno non la vuole quasi nessuno e la terza è applicata con successo solo negli Usa.
Chi scrive sostiene la bontà del sistema elettorale tedesco cui andrebbe accompagnato, tuttavia, il tema del superamento del bicameralismo. Anche qui, un argomento che può scendere dall’empireo dell’ingegneria costituzionale e divenire popolare. Passando dall’attuale Senato al Bundesrat, al posto dei senatori eletti avremo i rappresentanti dei governi regionali. A parte le ovvie ragioni di coerenza palesate da quel sistema, non sarebbe un buon modo per ridurre l’acqua in cui nuota il pesce populista?
E ancora, a proposito di scelte ormai non rinviabili per il Pd: perché non cogliere come una sfida il discorso di Marchionne al meeting di Cl? La rappresentazione di uno scontro padroni-operai simil novecentesco non regge. Il sistema di contrattazione è vecchio e va riformato, così come non può essere trascurato l’effetto devastante per la Fiat, assai diverso rispetto al passato, di una conflittualità permanente. Né è pensabile che i lavoratori non raccolgano i loro frutti dagli eventuali successi aziendali, anche in termini di partecipazione al capitale. La sfida per il Pd è tenere insieme riformismo istituzionale e sociale. Dopo tanto tempo, il suo segretario, grazie al nuovo Ulivo e all’alleanza costituzionale, ha presentato un percorso convincente. Nonostante gli urli del demagogo di turno che questa volta ha assunto il volto del sindaco di Firenze.
Ora si tratta di dare continuità alla proposta riformista, a tutto campo. Senza timidezze. Un impulso può scaturire anche dal prossimo arrivo al vertice della Cgil di Susanna Camusso, una dirigente che può contribuire a segnare un solco rispetto al sindacalismo conservatore targato Fiom.
p.a.
mercoledì 25 agosto 2010
Identikit riformisti: don Farinella
Proponiamo qui un suo intervento che, sebbene apparso ormai sei anni or sono (n. 54 di Adista Documenti – 17.7.2004) resta purtroppo ancora attuale nella rappresentazione efficace delle “nuove cinque piaghe” che affliggono la Chiesa odierna, a cominciare dalla crisi delle parrocchie, entità sempre più simili a agenzie dispensatrici di sacramenti e sempre meno capaci di essere luogo di autentica comunione e incisiva testimonianza evangelica.
Tra i rimedi da adottare per una possibile “riforma”, Farinella indica - fra l’altro - l’urgenza di liberare sacerdoti e vescovi dalle pastoie del presenzialismo e della burocrazia, tagliando “… molti impegni e attività non indispensabili per dedicarsi allo ‘stare insieme’, privilegiando i poveri in maniera permanente e non sporadica”.
Invoca inoltre un maggior ruolo da riconoscere ai laici nella parrocchia, spesso ridotti a elementi puramente “consultivi”.
A distanza di sei anni non sembra ancora di cogliere alcuna significativa inversione di tendenza…
(das)
N.B. - L'intervento di don Farinella è il terzo nel documento allegato:
LE NUOVE "CINQUE PIAGHE" DELLA PARROCCHIA/CHIESA
Pillole su Pomigliano e dintorni
Va preso in esame anche il fatto che gli "occupati" sono oggo un polo di conservazione, non a caso molti operai del nord vanno con la lega, la classica forza populista.
Fare una politica di inclusione alla scala necessaria, quella globale, non è semplice. A me sembra che lo stiano facendo di più i cattolici che le varie sinistre.
F.P.
lunedì 23 agosto 2010
Intervista ad Antonino Saggio.Quale architettura per Roma ?
mercoledì 18 agosto 2010
Identikit riformisti
Nel caso romano, un'operazione del genere potrebbe avere il volto di Nicola Zingaretti, candidato in pectore per il Campidoglio. A patto, tuttavia, che si allontani dalle vaghezze tipiche del birignao veltroniano e sappia sostenere posizioni non gradite alle solite lobbies capitoline (mattone, commercio, tassisti). Anche a costo di mettere a rischio alleanze vantaggiose (Casini e terzopolisti vari). Le occasioni non mancheranno. Dalla liberalizzazione dei servizi pubblici locali prevista dal decreto Ronchi (acqua, trasporti, rifiuti), alla mobilità, alla rivoluzione amministrativa nel senso del decentramento conseguente alla nascita della Provincia metropolitana, all'avvio di progetti di green economy già attuati in tante città europee. Esiste un'ampia documentazione su queste esperienze, è auspicabile che divengano un tema delle prossime campagne elettorali comunali. Ma per farlo occorre costruire con pazienza le candidature allargando il più possibile la coalizione e radicare la proposta politico – amministrativa che ne è espressione. Ricominciare dalla vecchia, cara politica senza inseguire colpi ad effetto. Ranieri a Napoli, la prossima primavera, può aprire la strada.
p.a.