Pubblichiamo di seguito 2 testi sul romanzo di Pennacchi. Il primo, già pubblicato, è di Paolo Allegrezza ed ha suscitato la replica contenuta nel secondo, il cui autore è Franco Scarnati. Le successive controrepliche sono in forma di commento. Il tutto preceduto da un'intervista all'autore.
Canale Mussolini, il romanzo di Antonio Pennacchi vincitore del premio Strega, è un libro che affonda le radici nella storia italiana. Racconta la vicenda di una famiglia di coloni padani dall’inizio del secolo al secondo dopoguerra e della loro granitica, irriducibile adesione al fascismo. E’ questo il punto forte della narrazione. La descrizione dal di dentro di come il fascismo fosse compenetrato alla dimensione materiale della piccola borghesia padana (i Peruzzi sono mezzadri). Secondo Pennacchi i Peruzzi, combattenti tra gli arditi nella prima guerra mondiale e successivamente vittime dei patti “vessatori” imposti dalle leghe agrarie socialiste ai mezzadri, non potevano non dirsi fascisti. Un’adesione istintiva, come quella di tanti italiani, che gli permise di trovare nel regime la risposta semplificante e comoda ad una realtà che ai loro occhi si andava ingarbugliando troppo.
Di qui l’incondizionata fiducia dei Peruzzi nel Duce e nel loro mentore e conterraneo, Edmondo Rossoni. Il gerarca ferrarese dà loro la terra e gli offre l’opportunità di emigrare nell’Agro pontino, appena bonificato. Come novelli puritani chiamati a colonizzare territori selvaggi, i contadini venuti dal nord ingaggiano una dura competizione contro “i marocchini”, gli autoctoni ostili, oppressi quanto e più di loro da una fame secolare.
Ma dovranno lottare anche contro la malaria, le alluvioni, gli investimenti sbagliati, le storture della burocrazia di regime. Il punto è che i Peruzzi sono fascisti in carne ed ossa e persino simpatici, con i quali è impossibile non solidarizzare. Il fascista che non ti aspetti. Viene in mente, come loro opposto, il personaggio dello squadrista rampante impersonato da Donald Sutherland in Novecento di Bertolucci, un piccolo borghese perverso e disumanizzato che è facile odiare.
Anche Pericle Peruzzi, il giovane maschio capobranco, durante una spedizione punitiva uccide un prete in quel di Comacchio. Ma lo fa senza pensarci troppo, rispondendo a quella legge della violenza che regola i rapporti umani di cui lui per primo è vittima. Quell’atto non avrà grandi conseguenze, Pericle continuerà ad essere convintamente fascista ed, anzi, ad ottenere per quei suoi antichi servigi un trattamento di favore per sé e la sua famiglia quando si dovranno assegnare le terre in Agro pontino.
E’ qui che il romanzo si dimostra in grado di raccontare una sua “verità” che fa della storia dei Peruzzi la storia di un clan abbarbicato nella difesa del suo interesse. Il contrario di una dimensione epica. In fondo, i Peruzzi sono ben calati nei secoli di storia italiana con i
loro pregi e non pochi difetti. E in loro non difetta certo l’opportunismo.
Appaiono più vicini agli italiani descritti in film come La grande guerra o Tutti a casa, piuttosto che all’epos, quello sì, di Roma città aperta o de La terra trema, con quella forte scommessa sul ‘noi’. Il che nulla toglie al romanzo di Pennacchi che può essere letto come
un capitolo di storia degli italiani dal punto di vista di chi (almeno politicamente) ha perso.
p.a.
Caro Paolo,
la tua recensione su "Canale Mussolini" non mi ha convinto. E'- il libro dal mio pdv- una rivisitazione del ventennio del fascio e del mito dei fascistissimi, della guerra coloniale, della bonifica per una rivalutazione e riabilitazione del periodo e dei suoi protagonisti, tutti contadini "spontanei", tutto condito in una epopea contadina col/nel mito sacrale della terra e della terra coltivata, pascolata, trainata dalla fatica industriosa della famiglia Peruzzi, nonna e nonnino compreso. Solo che l'eroe della narrazione è lo zio Pericle, riconosciuto stimato e considerato dal fascio locale e non, per meriti acquisiti sul campo, e cioè perchè spara sulle case del popolo, ammazza a bastonate il parroco dissidente,( per ordine del fascio, e non solo di quello locale ma per suggerimento dall'alto, che confessa piangente il delitto alla fanciulla che l'aveva sempre respinto e quindi il delitto si colora di rosa e di confetti) ed è pronto a tirar fuori il coltello nelle risse tra poveri. E la voce narrante, un nipote della flamiglia, te lo propone con simpatia, come un sano ed energico contadino, buon lavoratore eccetera eccetera, che infila in vicende certo un pò burrascose e movimentate, forse anche deprecabili, ma piene di avventura ed appassionanti, alla fine perchè no eroiche (magari con qualche contaddizione che per decenza viene velocemente infilata in commento). E il linguaggio della voce narrante è quello che tiene il tutto, perchè è altrettanto "spontaneo", ingenuo, semplice, immediato, direi proprio parlato con frequenti usi dialettali che rendono le vicende e il protagonista e i protagonistii- compreso lo zio Adelchi eroe d'Africa- tutto vero autentico condivisibile "simpatico". E questa è l'abilità vera dell'Autore: siamo di fronte a testimonianze vere e proprie che raccontano loro, con la loro voce, la loro appasionante e bella storia fatta di fascio e di terra . E così tutto il famigerato "ventennio" viene impacchettato in una autentica rivalutazione, comprese le migliaia di morti delle paludi pontine che vengono citati più che ricordati come "effetti collaterali" della magnifica bonifica fatta dal Duce, altro mito riprodotto a fianco della famiglia Peruzzi. Insomma, il libro e la sua premiazione mi sembrano un'abile operazione culturale e politica della Mondadori. Finito questo "pippardone" devo però precisare che quello che ti scrivo sin qui l'ho ricavato dalle prime trecento pagine, perchè il libro non l'ho ancora finito. Il seguito a prestissimo. Inoltre, ti devo aggiungere che la rivista "Left", in una sua recensione del 27 Agosto N.3 dal titolo "L'epos verace di Pennacchi" pag. 59, condivide in sostanza il tuo punto di vista.
F.S.