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giovedì 24 marzo 2011

Riflessione sulla lettera a Meneceo di Epicuro. Lezione di laicità ?


In quanto la filosofia si interroga su ciò che è il Bene per l'uomo e sulle condizioni della sua Felicità, essa ha riflettuto anche sulla Paura, passione che ha animato, anima l'uomo, condizionandone l'azione, il pensiero, le scelte.
Nel corso del tempo le paure dell'uomo mutano. In ragione delle sue conoscenze, del cambiamento del mondo in cui vive, egli si sente minacciato da pericoli diversi.

La Lettera a Meneceo di Epicuro, che visse tra il 341 a.C. e il 270 a.C., dunque in età ellenistica, vuole essere una sorta di formula per liberare l'uomo dalle paure più comuni: la paura degli dei, la paura della morte, la paura del futuro.
Liberato da queste paure l'uomo raggiunge la tranquillità dell'animo, la Felicità.

Epicuro fa riferimento ad un'idea di Felicità alla quale è estraneo ogni riferimento alla dimensione politica e sociale dell'uomo, la sua Etica è “a-politica”, in quanto svolta con lo sguardo fermo alla vita interiore dell'uomo. Epicuro persegue un fine individualistico della tranquillità dell'animo e di Felicità.

Senz'altro questa impostazione è legata al momento storico- politico in cui la filosofia di Epicuro nasce.

Epicuro opera in età ellenistica (III a.C.- I d.C.), apre la sua scuola “Il Giardino” ad Atene nel 306 a.C.:

  • Conquista della Grecia da parte di Alessandro Magno: si spalanca un mondo vastissimo e multiforme, che porta con sé la fine delle forme istituzionali dell'Ellade.
  • Morte di Alessandro e frantumarsi del suo impero.
  • Creazione dei regni ellenistici.
  • Alla democrazia assembleare ellenica si sostituiscono monarchie assolute di stampo orientale.
  • L'uomo greco non è più cittadino ma suddito, non è più l'artefice della vita pubblica.
  • Decadenza della polis.
  • La vita politica non ha più il suo centro entro i confini delle città-stato ma si svolge nei grandi centri cosmopoliti.
  • Trasformazioni economiche-sociali: indebolimento del ceto medio: la ricchezza si concentra nelle mani dei pochi asserviti al nuovo potere.
  • Avvenimenti di portata mondiale si intrecciano a beghe di corte e locali.

Si genera un clima di incertezza, il destino politico dell'uomo, il vivere sociale sembra in balia del caso o comunque di forze su cui l'azione del singolo o del gruppo cittadino non può avere alcuna influenza. Non si ha più fiducia nella possibilità di razionalizzare, di dare ordine alla vita sociale.
Lo stato offre ancora al cittadino un luogo in cui vivere ma non più il contenuto della sua vita.
Lo sguardo dell'uomo si sposta sulla vita interiore.

La filosofia dell'epoca rispecchia questo mutamento, e rintraccia un suo compito nell'andare incontro alle inquietudini dell'individuo, nel dare un messaggio di saggezza e serenità capace di guidare il vivere quotidiano dell'individuo che non ha più questa guida nella sua partecipazione alla vita della polis. L' uomo chiede alla filosofia una visione del mondo funzionale alla sua vita, utile alla sua condotta.

L'etica di Epicuro risponde a questo nuovo bisogno, propone la formula per liberare l'uomo dall'inquietudine in cui la storia lo ha trascinato, assecondando questa tendenza a cercare dentro di sé, lontano dal tumultuoso disordine esterno, la soluzione per liberarsi dalle sue paure.
Le vicende politiche servono ad Epicuro solo per riconoscere i mali da cui il saggio deve preservare il suo animo per conquistare un'imperturbabile serenità.

1) La Lettera a Meneceo si apre con un'esortazione sia al giovane che al vecchio a filosofare, in quanto la filosofia è riconosciuta come lo strumento che conduce alla salute dell'anima e, dunque, alla felicità.
La vita del vecchio si volge più al passato e quella del giovane di più al futuro. E' la filosofia a far sì che il primo non si perda nel rimpianto, suggerendogli di godere dei beni trascorsi. I piaceri, i beni trascorsi sono una certezza della quale bisogna essere grati alla vita.

Allo stesso modo è la filosofia a placare l'ansia del giovane, liberandolo dalle paure e da quei turbamenti e desideri che possono renderlo infelice, consentendogli così di non temere l'avvenire.

2) La paura degli dei: Epicuro non nega la loro esistenza, anzi la considera evidente, tant'è che considera ognuno in grado di considerarne l'essenza in base alla nozione innata che ne abbiamo. Il divino è eterno e beato, è perfetto, pertanto del tutto estraneo alle nostre vicende. Concepire gli dei animati nei nostri confronti, mossi da sollecitudini e ansie significherebbe considerarli non beati, il che sarebbe contrario alla loro perfezione.

3) La morte, altro oggetto di paura, non è nulla per noi. Quando noi siamo non c'è la morte. Quando c'è la morte non siamo più noi. Il non vivere non può essere per noi né un bene né un male, perché bene e male, identificandosi con il piacere e il dolore presuppongono la sensazione, laddove il non vivere, la morte è invece assenza di sensazione. Anche come evento futuro la morte non può essere considerata un male perché non si può considerare male nell'attesa ciò che non è un male quando si dà, quando è presente. Superata la paura della morte, il saggio può godere serenamente la vita, vivere saggiamente, cioè senza avere paura della sua mortalità.

4) L'etica di Epicuro si basa sulle passioni, è la passione che ci consente di distinguere il bene e il male. Il bene coincide con il piacere e il male con il dolore, l'uno è da ricercare l'altro da fuggire. I piaceri però hanno valore diverso, e spetta al saggio, al filosofo metterne in evidenza una discriminazione qualitativa. Vi sono desideri naturali e desideri vani, ovvero desideri ai quali non corrisponde alcun oggetto di soddisfazione nella realtà, in natura, “mulini a vento” : gli onori, il desiderio di potenza, di ricchezze.

I desideri naturali, a loro volta, si distinguono in necessari e non necessari. Occorre limitare la soddisfazione ai soli desideri naturali e necessari, in quanto gli altri sono insaziabili, privi di limite e dunque incapaci di condurre al piacere.
I desideri che dobbiamo soddisfare sono quelli che, soddisfatti, corrispondono a quel piacere che è la salute del corpo e la tranquillità dell'animo.

I desideri naturali e necessari hanno un limite nell'assenza di dolore; il piacere di cui parla Epicuro non è il piacere dei gaudenti e dei dissoluti, non corrisponde al processo di soddisfazione del bisogno, ma al bisogno soddisfatto, non ad un piacere in movimento, che è destinato ad essere infinito, ma alla stasi. Il massimo del piacere è posto non là dove il desiderio è più intenso, ma dove esso si è placato. Si raggiunge il massimo del piacere, la felicità quando non c'è più desiderio, bisogno, mancanza, dolore.

5) Chi è consapevole di tutto questo, si è liberato dalle false paure, sa quale è il piacere da perseguire, ha raggiunto la saggezza. Tale saggezza ha una funzione strumentale, è una sorta di ars vivendi, la regola per condurre una vita piacevole che comporta limitare i nostri desideri a quelli elementari, naturali, al necessario per non avere più bisogni, dolore. In questo modo, siamo anche liberi da esigenze per il soddisfacimento delle quali ci esponiamo all'azione della fortuna, alla volontà altrui, a falsi condizionamenti. In questo restringere la propria esistenza ai bisogni primari, trarre il proprio piacere dall'essenziale, in questa semplificazione della propria esistenza che non aggiunge niente al semplice esistere, l'uomo si mostra saggio, può accettare la sua mortalità senza tormento, e vivere senza dolore, trovando in se stesso la ragione della sua felicità.

Paola Cimino