Pubblichiamo un breve estratto dell'articolo di Paolo Allegrezza sul fondatore di "Stato moderno", pubblicato sul numero di marzo di mondoperaio.
Chissà se oggi, a distanza di dieci anni che sembrano un’era geologica, Walter Veltroni riproporrebbe il pantheon della sinistra presentato al congresso torinese dei DS, nel gennaio 2000.Molto probabilmente no, se non altro perché la spregiudicata sintesi culturale lì tentata non è certo riuscita ad imporsi “come narrazione”, per dirla alla Vendola. Piuttosto che cercare un’improbabile sintesi tra Berlinguer, DonMilani, Lennon e Kennedy sarebbe stato più saggio volgere lo sguardo a casa nostra. A quel novecento italiano appena concluso, più specificamente alla galassia laico - azionista che di contaminazioni fra culture politiche ne aveva tentate, eccome.
A dire il vero la considerazione e le citazioni nei riguardi del filone giellista dell’azionismo non erano mai mancate nel dibattito dei postcomunisti. Figure come Foa e Galante Garrone, provenienti dall’esperienza di Giustizia e Libertà, o Bobbio, giunto al Partito d’Azione sulla scia del liberalsocialismo di Calogero e Capitini, godettero di vasto e meritato riconoscimento. Ma la vicenda del P.d.A. non è, come la storiografia più recente ha ampiamente sottolineato, risolvibile nel solo ambito del socialismo liberale. Spicca, nelle varie riscoperte del riformismo novecentesco successivo al 1989, il disinteresse della sinistra italiana nei riguardi del filone liberaldemocratico dell’azionismo, espresso da figure come Ugo La Malfa, Adolfo Tino, Carlo Ludovico Ragghianti, e soprattutto dal piccolo gruppo di Stato Moderno, la rivista di Mario Paggi edita tra il ‘44 e il ‘49. Eppure, volendo andare alla ricerca di incunaboli e possibili padri nobili del partito democratico, i liberaldemocratici, utilizzando un’espressione nella quale probabilmente molti di loro non si sarebbero riconosciuti, avrebbero pieno titolo ad essere considerati.
Sulle pagine de Lo Stato moderno si discusse a lungo della nascita in Italia di un partito democratico, ed anzi nella mancata evoluzione in quel senso del P.d.A. fu individuata la causa del suo fallimento. La stessa polemica che vide coinvolti Lussu e la componente giellista da una parte, e dall’altra la destra azionista (termine che necessiterebbe di ulteriori specificazioni poiché si trattava di uno schieramento tutt’altro che privo di differenziazioni, come dimostrano le diverse scelte compiute da Paggi e LaMalfa all’indomani del congresso azionista del marzo ‘46) ha più di un interesse per i riformisti italiani che sessanta anni dopo sono impegnati nella costruzione di un partito democratico. Perché era posta lì una questione che ancora oggi appare aperta: quale identità per un partito riformista collocato nel campo delle forze progressiste che ambisca a svolgere una funzione maggioritaria? Paggi, nel ‘44, sintetizzò la questione nella felice formula che richiamava al dilemma azionista tra grande partito democratico o piccola eresia socialista (novembre 1944). Sottintendendo la necessità di emanciparsi dall’ipoteca marxista e classista che identificava allora la sinistra socialista e comunista. Dopo il 1989, e dopo la conclusione dell’esperienza della sinistra clintoniana e blairiana, non è più tempo di eresie, né di modelli forti cui fare riferimento. La domanda da porre oggi riguarda piuttosto quale partito democratico si voglia costruire.
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