In un volume piacevole e assai documentato dal titolo “Riformisti e comunisti? Dal Pci al Pd. I miglioristi nella politica italiana” (Donzelli, 2010), Enrico Morando ricostruisce il contributo fornito alla sinistra da un gruppo di dirigenti che si richiamavano alla lezione di Giorgio Amendola.
Morando è stato un giovane esponente di quel gruppo capeggiato da Giorgio Napolitano. E la rievocazione delle vicende che caratterizzarono il quinquennio 1989-1994 ci aiuta a fare i conti con la memoria. Cosa sempre utile anche per evitare – come scrive Biagio de Giovanni nell’introduzione - le repliche dure o ironiche della storia.
La tesi che l’autore si prefigge di dimostrare è che la componente riformista del Pci-Pds avrebbe potuto svolgere una funzione determinante nel costruire un partito come perno dell’alternativa al centrodestra perché il potenziale innovativo – di cui i suoi esponenti erano portatori – era maturato ben prima della svolta dell’89. Eppure tale contributo non ci fu nella misura che sarebbe stata necessaria se solo in questi ultimi anni si è potuto dar vita al Pd e concludere – almeno per quanto riguarda il nuovo soggetto politico – la lunga transizione avviatasi con la caduta del Muro di Berlino.
Morando s’interroga su questa sorta di autolimitazione e individua tre ragioni essenziali del suo manifestarsi:
1) la concezione del partito che fa della sua unità un feticcio, una priorità assoluta a dispetto dello stesso superamento formale del centralismo democratico, e del suo “centro” un luogo politico vocato a governare quasi per diritto naturale da condizionare senza mai sfidarlo con chiare alternative di linea e di personale politico;
2) la scelta di porre l’accento sugli elementi di continuità con il percorso originale del Pci e, in particolare, della destra comunista nel marcare una distinzione con il confuso “nuovismo” di Occhetto, sacrificando però a questa esigenza tattica l’affermazione esplicita di un’idea di partito che assumesse la socialdemocrazia per quella che era nella vicenda europea e cioè un’idea antitetica al comunismo;
3) la riluttanza ad acquisire il socialismo liberale come terreno di ricerca del nuovo partito, confinandolo invece in uno spazio politico e culturale altro da sé con cui confrontarsi soltanto.
La parte più utile per l’oggi è ovviamente la terza se dopo vent’anni il nostro paese non ha ancora conosciuto la sua rivoluzione liberale. Ma l’analisi delle due prime ragioni di difficoltà – concezione del partito ed eccesso di continuità – aiuta i più giovani a capire meglio la tortuosità della trasformazione del Pci in un partito effettivamente diverso da quello precedente.
Mi soffermerò sul terzo motivo del ritardo per la sua attualità. Morando racconta come i miglioristi – esponenti del Pci che escludevano la prospettiva della fuoriuscita dal capitalismo e agivano per migliorare la situazione esistente propugnando politiche riformiste – cercassero una sintesi tra liberalismo e socialismo democratico. Agivano però con le cautele necessarie per rendere quell’innovazione compatibile con la loro appartenenza a un partito comunista, quasi mimetizzandole. E contribuivano in tal modo essi stessi a non rendere visibili e attrattive la loro ricerca e le loro posizioni dentro e fuori il partito.
L’autore ricorda come già nei primi anni ’80 Salvatore Veca avesse incominciato ad offrire gli strumenti culturali per misurarsi con l’individualismo di massa esploso a seguito del ’68 e avesse introdotto nella riflessione pubblica italiana il pensiero di Rawls. Una ricerca che, in coincidenza con la caduta del Muro di Berlino, si riversa nel fortunato volume di Martinelli, Salvati e Veca “Progetto ’89. Tre saggi su libertà, eguaglianza e fraternità” che pone con forza l’esigenza di elaborare una sintesi tra socialismo riformista e liberalismo.
Morando richiama, inoltre, le concomitanti ricerche di Ranieri e Minopoli, giovani esponenti miglioristi, sul pensiero di Edward Bernstein e Carlo Rosselli e sul tentativo impossibile compiuto da Amendola nel suo percorso politico e culturale di coniugare comunismo e liberalismo, nonché i saggi di Napolitano sull’esperienza della solidarietà nazionale, in cui egli riflette sul tabù della “centralità del lavoro” e sui primi tentativi compiuti da lui stesso nel 1977 di metterlo esplicitamente in discussione per assumere nelle politiche di riforma una visione completa del cittadino non solo come produttore ma anche come consumatore e risparmiatore.
Puntigliosamente l’autore conduce la sua indagine sull’evoluzione della cultura politica dell’area riformista ricostruendo la vicenda dell’Alleanza democratica come soggetto politico dell’alternativa di governo, la nascita del Centro di iniziativa del Socialismo democratico e liberale in Alleanza democratica, con Giorgio Ruffolo ed altri esponenti di area laica e socialista, e la scelta del Pds di restringere la coalizione in quella dei Progressisti, un’alleanza di sinistra-sinistra che porterà alla vittoria di Berlusconi nel 1994.
E’ in quel frangente che prende corpo tra i miglioristi una discussione sulla natura del partito riformista attorno al quale organizzare il nuovo centro-sinistra: un nuovo partito socialista che si allea con altri soggetti politici o un partito che nel costruire un’alleanza di governo pone le basi per un nuovo soggetto politico che sia esso stesso di centrosinistra? Una divaricazione sulla natura del nuovo partito che però fa salva la politica (la costruzione di un vasto schieramento progressista di centro-sinistra, attorno a un grande partito riformista che ne costituisca l’asse e ne garantisca la guida) e le politiche (oltre il vecchio paradigma socialdemocratico, per coniugare eguaglianza ed efficienza, in una nuova alleanza tra meriti e bisogni), su cui vi era una sostanziale unità di vedute.
Ma quella divergenza sulla natura del nuovo soggetto politico portò allo scioglimento dell’area riformista, determinando di fatto l’irrilevanza politica dell’iniziativa dei singoli dirigenti. Né si ricomporrà quando nel 2001 Morando presenterà una mozione al congresso di Pesaro per sfidare apertamente Piero Fassino e Giovanni Berlinguer su chiare posizioni liberalsocialiste, proponendo un nuovo soggetto politico coi geni di quello che sarebbe stato il futuro partito democratico.
Fu davvero inevitabile far discendere dalla diversità di vedute sulla natura del nuovo partito la scelta di non agire più come componente riformista proprio nella fase in cui si stava per dar vita all’Ulivo e il nuovo centro-sinistra si preparava a governare il Paese? E’ racchiuso, a mio avviso, in quella decisione il succo della vicenda dei miglioristi: il fallimento della loro iniziativa non fu solo il frutto di un’autodifesa e di una sorta di ritrosia a non apparire come quelli che aprivano alla deriva socialdemocratica ma anche l’esito inesorabile – condiviso con la maggioranza del partito - di una presunzione e di un senso di autosufficienza perfino nel promuovere una cultura liberalsocialista. Nel Pci-Pds quella cultura era quasi completamente assente se non in tracce molto limitate che si potevano ritrovare in singole personalità, come Amendola e Napolitano, e in giovani esponenti predisposti all’innovazione che però dovevano alimentare l’ansia di mutamento dialogando e collaborando con forze esterne al partito. L‘errore fu nel non aver ritenuto necessario già in quel momento sciogliere l’esperienza comunista in un nuovo partito che, unificando i diversi filoni riformisti della nostra storia repubblicana, ampliasse le forze culturali da impegnare nella ricerca di una sintesi del liberalismo democratico, cattolico e laico, e del socialismo democratico. Se i miglioristi fossero rimasti uniti anche su questo punto, probabilmente la cultura liberalsocialista si sarebbe affermata più facilmente; ed oggi nel Pd - che comunque è stato creato - non assisteremmo al triste spettacolo di una dialettica interna tutta fondata sulle vecchie culture di provenienza: un modo di stare insieme come separati in casa, coltivando ciascuna parte l’antico vizio della presunzione autoreferenziale.
Nel ricostruire il filo del dibattito culturale che ha visto coinvolta l’area riformista del Pci-Pds, Morando affronta un tema di grande interesse su cui si è ancora riflettuto poco: il ’68 come grande occasione perduta dal Pci per rinnovare profondamente la propria cultura politica. Ne ha parlato qualche anno fa Biagio de Giovanni sostenendo una tesi condivisibile: se la Dc di Moro e il Pci di Berlinguer avessero assunto nella propria politica la centralità delle libertà e dei diritti dell’individuo che il ‘68 proponeva, si sarebbero forse collegati con un pezzo forte e nuovo della società italiana e avrebbero contribuito a fare uscire il Paese dall’immobilismo politico e sociale. Non lo fecero. E Craxi, che pure dette l’impressione di aver compreso l’importanza di quella corrente di mutamento che scuoteva il Paese, non si mise in condizione di approfittarne.
In un saggio intitolato “Il ’68 delle campagne” avevo anch’io affrontato questo tema, mettendo in risalto le radici agricole della dimensione individuale di massa e l’incapacità della politica di offrire una risposta a quella profonda aspirazione antiautoritaria e libertaria che era emersa a metà degli anni ‘60 nella società italiana - nelle sue diverse pieghe: dalle campagne alle fabbriche e alle università - profondamente provata da un processo accelerato e caotico di modernizzazione indotto dai grandi soggetti collettivi del secondo dopoguerra.
Morando annota con amara ironia come sia stato Berlusconi, a modo suo, a dare una sponda alla domanda di libertà dell’individuo che veniva da quell’onda lunga. Ma né l’Ulivo né il Pd, se non in alcune sue componenti molto ristrette, contemplano una presenza autentica di cultura liberale e socialista. Eppure la lunga transizione finirà solo quando questi due filoni, oggi dispersi in mille rivoli, daranno finalmente vita ad una nuova cultura politica che sappia gestire quella rivoluzione liberale che il Paese ancora attende da così lungo tempo. Il pensiero politico ed economico di autori liberaldemocratici come Martha Nussbaum, Amartya Sen, Robert Nozick non è mai arrivato nel nostro paese. Manca una riflessione pubblica sui temi della bioetica, sul rapporto tra società dell’informazione e democrazia, sulla relazione tra efficienza e solidarietà, sul pluralismo degli ethos del mercato, da quello utilitaristico fondato sul reciproco vantaggio a quello dell’economia civile fondato sul mutuo aiuto. Ora che i grandi mutamenti del mondo hanno modificato il senso di tante cose, il libro di Morando, insieme ad altri pochi recenti contributi, può aiutarci a riaprire la discussione.
Alfonso Pascale