Vendola come il Cofferati del 2003 ? Vi sono diverse analogia tra la breve stagione del sindacalista del senza se e senza ma e l'attuale protagonismo del Presidente della Puglia. Entrambi candidati anti establishment, interpreti di una linea più “radicale” (leggi conservatrice) rispetto alle maggioranze di Ds e Pd, entrambi adorati da folle desiderose di purezza rispetto al grigiore dei riformisti (allora i girotondi, oggi i viola e i partecipanti alle fabbriche), entrambi con quell'aria da neofiti della politica pur essendone da decenni sperimentati professionisti, entrambi abili nel lasciare avvolti nella vaghezza i loro programmi. La non trascurabile differenza riguarda il coraggio dell'auto candidatura mostrato da Vendola che segnò il principale motivo del rapido svuotamento del cofferatismo: l'ex segretario Cgil si proponeva di guidare la sinistra, ma era in minoranza nel suo partito, come rivelò il deludente risultato del Correntone.
Così non gli rimase che ripiegare su Bologna, ove fu protagonista di una non indimenticabile esperienza amministrativa. Il punto è capire quante probabilità abbia la rapida (e inaspettata) discesa in campo di Vendola di ripercorrere l'esito del suo omologo. A parere di chi scrive molte. Con una variabile: produrre danni maggiori. Vediamone alcuni.
1) Dividere il Pd proprio nel momento in cui si sta consolidando la segreteria di Bersani e il metodo di un'opposizione riformista. Non a caso Vendola si è subito dichiarato ostile all'ipotesi di una grande coalizione, facendo propria la tesi delle elezioni anticipate in caso di caduta di Berlusconi.
2) Fornire un ghiotto assist alla destra, ponendo di nuovo al centro dell'attenzione il tema delle divisioni a sinistra.
3) Mettere in discussione il principio, dato per scontato in ogni democrazia dell'alternanza, che leadership del maggior partito e leadership della coalizione
coalizione coincidono.
4) Ridurre il dibattito sul governo alla narrazione di “un nuovo mondo possibile”. Nuova aria fritta di cui non si sente francamente il bisogno. Nella sua Regione Vendola è riuscito a dare vita ad esperienze di governo innovative (la Puglia film commission, su tutti), ma l'Italia è un'altra cosa. Ricordiamoci i fasti bertinottiani delle 35 ore.
A tutto ciò va aggiunta l'oggettiva debolezza di un candidato premier rappresentante un partito che non arriva al 3% dell'elettorato che non appare essere in grado di rappresentare altro che il volto presentabile della fu Rifondazione comunista. Diverso il discorso se il Nostro si proponesse per la segreteria del Pd, scelta che comporterebbe un utile confronto fra riformisti e conservatori. Si scompaginerebbero così molte carte, ma la replica del miracolo pugliese non sembra neanche in questo caso possibile. Anche perché non si vede proprio chi potrebbe svolgere nel Pd il ruolo della Poli Bortone.
p.a.
lunedì 26 luglio 2010
venerdì 23 luglio 2010
Il libro di Morando sui riformisti del Pci: una recensione
In un volume piacevole e assai documentato dal titolo “Riformisti e comunisti? Dal Pci al Pd. I miglioristi nella politica italiana” (Donzelli, 2010), Enrico Morando ricostruisce il contributo fornito alla sinistra da un gruppo di dirigenti che si richiamavano alla lezione di Giorgio Amendola.
Morando è stato un giovane esponente di quel gruppo capeggiato da Giorgio Napolitano. E la rievocazione delle vicende che caratterizzarono il quinquennio 1989-1994 ci aiuta a fare i conti con la memoria. Cosa sempre utile anche per evitare – come scrive Biagio de Giovanni nell’introduzione - le repliche dure o ironiche della storia.
La tesi che l’autore si prefigge di dimostrare è che la componente riformista del Pci-Pds avrebbe potuto svolgere una funzione determinante nel costruire un partito come perno dell’alternativa al centrodestra perché il potenziale innovativo – di cui i suoi esponenti erano portatori – era maturato ben prima della svolta dell’89. Eppure tale contributo non ci fu nella misura che sarebbe stata necessaria se solo in questi ultimi anni si è potuto dar vita al Pd e concludere – almeno per quanto riguarda il nuovo soggetto politico – la lunga transizione avviatasi con la caduta del Muro di Berlino.
Morando s’interroga su questa sorta di autolimitazione e individua tre ragioni essenziali del suo manifestarsi:
1) la concezione del partito che fa della sua unità un feticcio, una priorità assoluta a dispetto dello stesso superamento formale del centralismo democratico, e del suo “centro” un luogo politico vocato a governare quasi per diritto naturale da condizionare senza mai sfidarlo con chiare alternative di linea e di personale politico;
2) la scelta di porre l’accento sugli elementi di continuità con il percorso originale del Pci e, in particolare, della destra comunista nel marcare una distinzione con il confuso “nuovismo” di Occhetto, sacrificando però a questa esigenza tattica l’affermazione esplicita di un’idea di partito che assumesse la socialdemocrazia per quella che era nella vicenda europea e cioè un’idea antitetica al comunismo;
3) la riluttanza ad acquisire il socialismo liberale come terreno di ricerca del nuovo partito, confinandolo invece in uno spazio politico e culturale altro da sé con cui confrontarsi soltanto.
La parte più utile per l’oggi è ovviamente la terza se dopo vent’anni il nostro paese non ha ancora conosciuto la sua rivoluzione liberale. Ma l’analisi delle due prime ragioni di difficoltà – concezione del partito ed eccesso di continuità – aiuta i più giovani a capire meglio la tortuosità della trasformazione del Pci in un partito effettivamente diverso da quello precedente.
Mi soffermerò sul terzo motivo del ritardo per la sua attualità. Morando racconta come i miglioristi – esponenti del Pci che escludevano la prospettiva della fuoriuscita dal capitalismo e agivano per migliorare la situazione esistente propugnando politiche riformiste – cercassero una sintesi tra liberalismo e socialismo democratico. Agivano però con le cautele necessarie per rendere quell’innovazione compatibile con la loro appartenenza a un partito comunista, quasi mimetizzandole. E contribuivano in tal modo essi stessi a non rendere visibili e attrattive la loro ricerca e le loro posizioni dentro e fuori il partito.
L’autore ricorda come già nei primi anni ’80 Salvatore Veca avesse incominciato ad offrire gli strumenti culturali per misurarsi con l’individualismo di massa esploso a seguito del ’68 e avesse introdotto nella riflessione pubblica italiana il pensiero di Rawls. Una ricerca che, in coincidenza con la caduta del Muro di Berlino, si riversa nel fortunato volume di Martinelli, Salvati e Veca “Progetto ’89. Tre saggi su libertà, eguaglianza e fraternità” che pone con forza l’esigenza di elaborare una sintesi tra socialismo riformista e liberalismo.
Morando richiama, inoltre, le concomitanti ricerche di Ranieri e Minopoli, giovani esponenti miglioristi, sul pensiero di Edward Bernstein e Carlo Rosselli e sul tentativo impossibile compiuto da Amendola nel suo percorso politico e culturale di coniugare comunismo e liberalismo, nonché i saggi di Napolitano sull’esperienza della solidarietà nazionale, in cui egli riflette sul tabù della “centralità del lavoro” e sui primi tentativi compiuti da lui stesso nel 1977 di metterlo esplicitamente in discussione per assumere nelle politiche di riforma una visione completa del cittadino non solo come produttore ma anche come consumatore e risparmiatore.
Puntigliosamente l’autore conduce la sua indagine sull’evoluzione della cultura politica dell’area riformista ricostruendo la vicenda dell’Alleanza democratica come soggetto politico dell’alternativa di governo, la nascita del Centro di iniziativa del Socialismo democratico e liberale in Alleanza democratica, con Giorgio Ruffolo ed altri esponenti di area laica e socialista, e la scelta del Pds di restringere la coalizione in quella dei Progressisti, un’alleanza di sinistra-sinistra che porterà alla vittoria di Berlusconi nel 1994.
E’ in quel frangente che prende corpo tra i miglioristi una discussione sulla natura del partito riformista attorno al quale organizzare il nuovo centro-sinistra: un nuovo partito socialista che si allea con altri soggetti politici o un partito che nel costruire un’alleanza di governo pone le basi per un nuovo soggetto politico che sia esso stesso di centrosinistra? Una divaricazione sulla natura del nuovo partito che però fa salva la politica (la costruzione di un vasto schieramento progressista di centro-sinistra, attorno a un grande partito riformista che ne costituisca l’asse e ne garantisca la guida) e le politiche (oltre il vecchio paradigma socialdemocratico, per coniugare eguaglianza ed efficienza, in una nuova alleanza tra meriti e bisogni), su cui vi era una sostanziale unità di vedute.
Ma quella divergenza sulla natura del nuovo soggetto politico portò allo scioglimento dell’area riformista, determinando di fatto l’irrilevanza politica dell’iniziativa dei singoli dirigenti. Né si ricomporrà quando nel 2001 Morando presenterà una mozione al congresso di Pesaro per sfidare apertamente Piero Fassino e Giovanni Berlinguer su chiare posizioni liberalsocialiste, proponendo un nuovo soggetto politico coi geni di quello che sarebbe stato il futuro partito democratico.
Fu davvero inevitabile far discendere dalla diversità di vedute sulla natura del nuovo partito la scelta di non agire più come componente riformista proprio nella fase in cui si stava per dar vita all’Ulivo e il nuovo centro-sinistra si preparava a governare il Paese? E’ racchiuso, a mio avviso, in quella decisione il succo della vicenda dei miglioristi: il fallimento della loro iniziativa non fu solo il frutto di un’autodifesa e di una sorta di ritrosia a non apparire come quelli che aprivano alla deriva socialdemocratica ma anche l’esito inesorabile – condiviso con la maggioranza del partito - di una presunzione e di un senso di autosufficienza perfino nel promuovere una cultura liberalsocialista. Nel Pci-Pds quella cultura era quasi completamente assente se non in tracce molto limitate che si potevano ritrovare in singole personalità, come Amendola e Napolitano, e in giovani esponenti predisposti all’innovazione che però dovevano alimentare l’ansia di mutamento dialogando e collaborando con forze esterne al partito. L‘errore fu nel non aver ritenuto necessario già in quel momento sciogliere l’esperienza comunista in un nuovo partito che, unificando i diversi filoni riformisti della nostra storia repubblicana, ampliasse le forze culturali da impegnare nella ricerca di una sintesi del liberalismo democratico, cattolico e laico, e del socialismo democratico. Se i miglioristi fossero rimasti uniti anche su questo punto, probabilmente la cultura liberalsocialista si sarebbe affermata più facilmente; ed oggi nel Pd - che comunque è stato creato - non assisteremmo al triste spettacolo di una dialettica interna tutta fondata sulle vecchie culture di provenienza: un modo di stare insieme come separati in casa, coltivando ciascuna parte l’antico vizio della presunzione autoreferenziale.
Nel ricostruire il filo del dibattito culturale che ha visto coinvolta l’area riformista del Pci-Pds, Morando affronta un tema di grande interesse su cui si è ancora riflettuto poco: il ’68 come grande occasione perduta dal Pci per rinnovare profondamente la propria cultura politica. Ne ha parlato qualche anno fa Biagio de Giovanni sostenendo una tesi condivisibile: se la Dc di Moro e il Pci di Berlinguer avessero assunto nella propria politica la centralità delle libertà e dei diritti dell’individuo che il ‘68 proponeva, si sarebbero forse collegati con un pezzo forte e nuovo della società italiana e avrebbero contribuito a fare uscire il Paese dall’immobilismo politico e sociale. Non lo fecero. E Craxi, che pure dette l’impressione di aver compreso l’importanza di quella corrente di mutamento che scuoteva il Paese, non si mise in condizione di approfittarne.
In un saggio intitolato “Il ’68 delle campagne” avevo anch’io affrontato questo tema, mettendo in risalto le radici agricole della dimensione individuale di massa e l’incapacità della politica di offrire una risposta a quella profonda aspirazione antiautoritaria e libertaria che era emersa a metà degli anni ‘60 nella società italiana - nelle sue diverse pieghe: dalle campagne alle fabbriche e alle università - profondamente provata da un processo accelerato e caotico di modernizzazione indotto dai grandi soggetti collettivi del secondo dopoguerra.
Morando annota con amara ironia come sia stato Berlusconi, a modo suo, a dare una sponda alla domanda di libertà dell’individuo che veniva da quell’onda lunga. Ma né l’Ulivo né il Pd, se non in alcune sue componenti molto ristrette, contemplano una presenza autentica di cultura liberale e socialista. Eppure la lunga transizione finirà solo quando questi due filoni, oggi dispersi in mille rivoli, daranno finalmente vita ad una nuova cultura politica che sappia gestire quella rivoluzione liberale che il Paese ancora attende da così lungo tempo. Il pensiero politico ed economico di autori liberaldemocratici come Martha Nussbaum, Amartya Sen, Robert Nozick non è mai arrivato nel nostro paese. Manca una riflessione pubblica sui temi della bioetica, sul rapporto tra società dell’informazione e democrazia, sulla relazione tra efficienza e solidarietà, sul pluralismo degli ethos del mercato, da quello utilitaristico fondato sul reciproco vantaggio a quello dell’economia civile fondato sul mutuo aiuto. Ora che i grandi mutamenti del mondo hanno modificato il senso di tante cose, il libro di Morando, insieme ad altri pochi recenti contributi, può aiutarci a riaprire la discussione.
Alfonso Pascale
Morando è stato un giovane esponente di quel gruppo capeggiato da Giorgio Napolitano. E la rievocazione delle vicende che caratterizzarono il quinquennio 1989-1994 ci aiuta a fare i conti con la memoria. Cosa sempre utile anche per evitare – come scrive Biagio de Giovanni nell’introduzione - le repliche dure o ironiche della storia.
La tesi che l’autore si prefigge di dimostrare è che la componente riformista del Pci-Pds avrebbe potuto svolgere una funzione determinante nel costruire un partito come perno dell’alternativa al centrodestra perché il potenziale innovativo – di cui i suoi esponenti erano portatori – era maturato ben prima della svolta dell’89. Eppure tale contributo non ci fu nella misura che sarebbe stata necessaria se solo in questi ultimi anni si è potuto dar vita al Pd e concludere – almeno per quanto riguarda il nuovo soggetto politico – la lunga transizione avviatasi con la caduta del Muro di Berlino.
Morando s’interroga su questa sorta di autolimitazione e individua tre ragioni essenziali del suo manifestarsi:
1) la concezione del partito che fa della sua unità un feticcio, una priorità assoluta a dispetto dello stesso superamento formale del centralismo democratico, e del suo “centro” un luogo politico vocato a governare quasi per diritto naturale da condizionare senza mai sfidarlo con chiare alternative di linea e di personale politico;
2) la scelta di porre l’accento sugli elementi di continuità con il percorso originale del Pci e, in particolare, della destra comunista nel marcare una distinzione con il confuso “nuovismo” di Occhetto, sacrificando però a questa esigenza tattica l’affermazione esplicita di un’idea di partito che assumesse la socialdemocrazia per quella che era nella vicenda europea e cioè un’idea antitetica al comunismo;
3) la riluttanza ad acquisire il socialismo liberale come terreno di ricerca del nuovo partito, confinandolo invece in uno spazio politico e culturale altro da sé con cui confrontarsi soltanto.
La parte più utile per l’oggi è ovviamente la terza se dopo vent’anni il nostro paese non ha ancora conosciuto la sua rivoluzione liberale. Ma l’analisi delle due prime ragioni di difficoltà – concezione del partito ed eccesso di continuità – aiuta i più giovani a capire meglio la tortuosità della trasformazione del Pci in un partito effettivamente diverso da quello precedente.
Mi soffermerò sul terzo motivo del ritardo per la sua attualità. Morando racconta come i miglioristi – esponenti del Pci che escludevano la prospettiva della fuoriuscita dal capitalismo e agivano per migliorare la situazione esistente propugnando politiche riformiste – cercassero una sintesi tra liberalismo e socialismo democratico. Agivano però con le cautele necessarie per rendere quell’innovazione compatibile con la loro appartenenza a un partito comunista, quasi mimetizzandole. E contribuivano in tal modo essi stessi a non rendere visibili e attrattive la loro ricerca e le loro posizioni dentro e fuori il partito.
L’autore ricorda come già nei primi anni ’80 Salvatore Veca avesse incominciato ad offrire gli strumenti culturali per misurarsi con l’individualismo di massa esploso a seguito del ’68 e avesse introdotto nella riflessione pubblica italiana il pensiero di Rawls. Una ricerca che, in coincidenza con la caduta del Muro di Berlino, si riversa nel fortunato volume di Martinelli, Salvati e Veca “Progetto ’89. Tre saggi su libertà, eguaglianza e fraternità” che pone con forza l’esigenza di elaborare una sintesi tra socialismo riformista e liberalismo.
Morando richiama, inoltre, le concomitanti ricerche di Ranieri e Minopoli, giovani esponenti miglioristi, sul pensiero di Edward Bernstein e Carlo Rosselli e sul tentativo impossibile compiuto da Amendola nel suo percorso politico e culturale di coniugare comunismo e liberalismo, nonché i saggi di Napolitano sull’esperienza della solidarietà nazionale, in cui egli riflette sul tabù della “centralità del lavoro” e sui primi tentativi compiuti da lui stesso nel 1977 di metterlo esplicitamente in discussione per assumere nelle politiche di riforma una visione completa del cittadino non solo come produttore ma anche come consumatore e risparmiatore.
Puntigliosamente l’autore conduce la sua indagine sull’evoluzione della cultura politica dell’area riformista ricostruendo la vicenda dell’Alleanza democratica come soggetto politico dell’alternativa di governo, la nascita del Centro di iniziativa del Socialismo democratico e liberale in Alleanza democratica, con Giorgio Ruffolo ed altri esponenti di area laica e socialista, e la scelta del Pds di restringere la coalizione in quella dei Progressisti, un’alleanza di sinistra-sinistra che porterà alla vittoria di Berlusconi nel 1994.
E’ in quel frangente che prende corpo tra i miglioristi una discussione sulla natura del partito riformista attorno al quale organizzare il nuovo centro-sinistra: un nuovo partito socialista che si allea con altri soggetti politici o un partito che nel costruire un’alleanza di governo pone le basi per un nuovo soggetto politico che sia esso stesso di centrosinistra? Una divaricazione sulla natura del nuovo partito che però fa salva la politica (la costruzione di un vasto schieramento progressista di centro-sinistra, attorno a un grande partito riformista che ne costituisca l’asse e ne garantisca la guida) e le politiche (oltre il vecchio paradigma socialdemocratico, per coniugare eguaglianza ed efficienza, in una nuova alleanza tra meriti e bisogni), su cui vi era una sostanziale unità di vedute.
Ma quella divergenza sulla natura del nuovo soggetto politico portò allo scioglimento dell’area riformista, determinando di fatto l’irrilevanza politica dell’iniziativa dei singoli dirigenti. Né si ricomporrà quando nel 2001 Morando presenterà una mozione al congresso di Pesaro per sfidare apertamente Piero Fassino e Giovanni Berlinguer su chiare posizioni liberalsocialiste, proponendo un nuovo soggetto politico coi geni di quello che sarebbe stato il futuro partito democratico.
Fu davvero inevitabile far discendere dalla diversità di vedute sulla natura del nuovo partito la scelta di non agire più come componente riformista proprio nella fase in cui si stava per dar vita all’Ulivo e il nuovo centro-sinistra si preparava a governare il Paese? E’ racchiuso, a mio avviso, in quella decisione il succo della vicenda dei miglioristi: il fallimento della loro iniziativa non fu solo il frutto di un’autodifesa e di una sorta di ritrosia a non apparire come quelli che aprivano alla deriva socialdemocratica ma anche l’esito inesorabile – condiviso con la maggioranza del partito - di una presunzione e di un senso di autosufficienza perfino nel promuovere una cultura liberalsocialista. Nel Pci-Pds quella cultura era quasi completamente assente se non in tracce molto limitate che si potevano ritrovare in singole personalità, come Amendola e Napolitano, e in giovani esponenti predisposti all’innovazione che però dovevano alimentare l’ansia di mutamento dialogando e collaborando con forze esterne al partito. L‘errore fu nel non aver ritenuto necessario già in quel momento sciogliere l’esperienza comunista in un nuovo partito che, unificando i diversi filoni riformisti della nostra storia repubblicana, ampliasse le forze culturali da impegnare nella ricerca di una sintesi del liberalismo democratico, cattolico e laico, e del socialismo democratico. Se i miglioristi fossero rimasti uniti anche su questo punto, probabilmente la cultura liberalsocialista si sarebbe affermata più facilmente; ed oggi nel Pd - che comunque è stato creato - non assisteremmo al triste spettacolo di una dialettica interna tutta fondata sulle vecchie culture di provenienza: un modo di stare insieme come separati in casa, coltivando ciascuna parte l’antico vizio della presunzione autoreferenziale.
Nel ricostruire il filo del dibattito culturale che ha visto coinvolta l’area riformista del Pci-Pds, Morando affronta un tema di grande interesse su cui si è ancora riflettuto poco: il ’68 come grande occasione perduta dal Pci per rinnovare profondamente la propria cultura politica. Ne ha parlato qualche anno fa Biagio de Giovanni sostenendo una tesi condivisibile: se la Dc di Moro e il Pci di Berlinguer avessero assunto nella propria politica la centralità delle libertà e dei diritti dell’individuo che il ‘68 proponeva, si sarebbero forse collegati con un pezzo forte e nuovo della società italiana e avrebbero contribuito a fare uscire il Paese dall’immobilismo politico e sociale. Non lo fecero. E Craxi, che pure dette l’impressione di aver compreso l’importanza di quella corrente di mutamento che scuoteva il Paese, non si mise in condizione di approfittarne.
In un saggio intitolato “Il ’68 delle campagne” avevo anch’io affrontato questo tema, mettendo in risalto le radici agricole della dimensione individuale di massa e l’incapacità della politica di offrire una risposta a quella profonda aspirazione antiautoritaria e libertaria che era emersa a metà degli anni ‘60 nella società italiana - nelle sue diverse pieghe: dalle campagne alle fabbriche e alle università - profondamente provata da un processo accelerato e caotico di modernizzazione indotto dai grandi soggetti collettivi del secondo dopoguerra.
Morando annota con amara ironia come sia stato Berlusconi, a modo suo, a dare una sponda alla domanda di libertà dell’individuo che veniva da quell’onda lunga. Ma né l’Ulivo né il Pd, se non in alcune sue componenti molto ristrette, contemplano una presenza autentica di cultura liberale e socialista. Eppure la lunga transizione finirà solo quando questi due filoni, oggi dispersi in mille rivoli, daranno finalmente vita ad una nuova cultura politica che sappia gestire quella rivoluzione liberale che il Paese ancora attende da così lungo tempo. Il pensiero politico ed economico di autori liberaldemocratici come Martha Nussbaum, Amartya Sen, Robert Nozick non è mai arrivato nel nostro paese. Manca una riflessione pubblica sui temi della bioetica, sul rapporto tra società dell’informazione e democrazia, sulla relazione tra efficienza e solidarietà, sul pluralismo degli ethos del mercato, da quello utilitaristico fondato sul reciproco vantaggio a quello dell’economia civile fondato sul mutuo aiuto. Ora che i grandi mutamenti del mondo hanno modificato il senso di tante cose, il libro di Morando, insieme ad altri pochi recenti contributi, può aiutarci a riaprire la discussione.
Alfonso Pascale
mercoledì 21 luglio 2010
Orti urbani a Roma. Un racconto
Stamattina, alla presenza delle autorità comunali, sindaco Alemanno in testa, con giornali, televisioni, cittadini, funzionari e buffet, ha avuto luogo l’inaugurazione del primo “Parco ad Orti” nel Municipio XVI, lungo via della Consolata.
Sono state dette le parole necessarie, dai diritti dei bambini all’agricoltura sociale, dalla protezione delle aree verdi alla conservazione del rapporto città campagna……, parole in gran parte condivisibili.
Data la storia dell’iniziativa, che verrà di seguito sintetizzata, è evidente come la sinistra locale, che ha condotto le giunte precedenti, abbia fatto, in questo caso, un cospicuo dono alla destra.
Cronistoria minima:
>1900: Istituzione dei primi lotti ad orti urbani regolamentati in Europa;
>1960: Presenza di aree ad orti urbani regolamentati in diverse città del nord Italia;
1980: Avvio degli studi sugli orti urbani in Italia e delle sollecitazioni nei confronti dell’Ente locale;
1984: Pubblicazione del volume “Orti Urbani una risorsa”, di Italia Nostra, con la Franco Angeli;
> 1984:
Continuazione delle sollecitazioni. Mentre nel nord Europa e nel nord Italia gli orti urbani vanno diventando una realtà sociale gestita a Roma rimangono un fenomeno spontaneo, con tutti i pregi ed i limiti che ciò comporta.
> 2000:
La cultura politico - ambientale ed urbanistica romana non raccoglie le sollecitazioni che vengono dalle associazioni e dagli esperti fino all’anno 2000.
In quell’anno i responsabili tecnici dell’Assessorato all’Ambiente del Comune, (Sindaco Veltroni, Assessore all’Ambiente Loredana De Petris ?, Direzione dell’Arch. Stefano Mastrangelo) istituiscono l’Ufficio Orti Urbani del Comune di Roma che avvia, con la consulenza dell’Associazione SAP (Silvicultura Agrocultura Paesaggio) il censimento degli orti urbani spontanei e la redazione del Regolamento.
Si propone in questa sede l’idea del “Parco ad Orti”.
Si avvia la progettazione del primo Parco ad Orti;
La Giunta che segue (Sindaco Veltroni, Assessore all’Ambiente Dario Esposito) conserva l’Ufficio Orti Urbani che continua a progettare l’unico “Parco ad Orti” ipotizzato, ma non lo realizza. Le sollecitazioni delle Associazioni e degli esperti cadono nel vuoto.
2008: Cade la Giunta Veltroni;
2010: Inaugurazione del primo “Parco ad orti”, con annunci di espansioni ed avvio di altre iniziative negli altri Municipi…...
Conclusioni
Il primo Parco ad orti c’è. Hanno tagliato il nastro, hanno fatto vedere come sono bravi e belli, hanno avuto in dono un cesto con le verdure ivi prodotte.
E’ probabile che rimanga l’unico per molto tempo, ma, comunque, c’è.
Quanto accaduto sollecita, necessariamente una domanda:
Perché la sinistra al Governo della città ha perso questa opportunità di creare un servizio apprezzato dai cittadini, di utilità ambientale ed urbanistica, a costi minimi, con importanti ricadute di consenso potenziale ?
Le componenti della possibile risposta sono molte ed ogni lettore può svilupparle.
Va però esplicitato che chi avrebbe potuto fare, chi avrebbe potuto ascoltare, decidere, stimolare, organizzare, in altre parole, governare, e non lo ha fatto, ha prodotto un danno all’ambiente, alla città, ai cittadini ed agli elettori che avevano contribuito a che fosse in quel posto.
Franco Paolinelli
Sono state dette le parole necessarie, dai diritti dei bambini all’agricoltura sociale, dalla protezione delle aree verdi alla conservazione del rapporto città campagna……, parole in gran parte condivisibili.
Data la storia dell’iniziativa, che verrà di seguito sintetizzata, è evidente come la sinistra locale, che ha condotto le giunte precedenti, abbia fatto, in questo caso, un cospicuo dono alla destra.
Cronistoria minima:
>1900: Istituzione dei primi lotti ad orti urbani regolamentati in Europa;
>1960: Presenza di aree ad orti urbani regolamentati in diverse città del nord Italia;
1980: Avvio degli studi sugli orti urbani in Italia e delle sollecitazioni nei confronti dell’Ente locale;
1984: Pubblicazione del volume “Orti Urbani una risorsa”, di Italia Nostra, con la Franco Angeli;
> 1984:
Continuazione delle sollecitazioni. Mentre nel nord Europa e nel nord Italia gli orti urbani vanno diventando una realtà sociale gestita a Roma rimangono un fenomeno spontaneo, con tutti i pregi ed i limiti che ciò comporta.
> 2000:
La cultura politico - ambientale ed urbanistica romana non raccoglie le sollecitazioni che vengono dalle associazioni e dagli esperti fino all’anno 2000.
In quell’anno i responsabili tecnici dell’Assessorato all’Ambiente del Comune, (Sindaco Veltroni, Assessore all’Ambiente Loredana De Petris ?, Direzione dell’Arch. Stefano Mastrangelo) istituiscono l’Ufficio Orti Urbani del Comune di Roma che avvia, con la consulenza dell’Associazione SAP (Silvicultura Agrocultura Paesaggio) il censimento degli orti urbani spontanei e la redazione del Regolamento.
Si propone in questa sede l’idea del “Parco ad Orti”.
Si avvia la progettazione del primo Parco ad Orti;
La Giunta che segue (Sindaco Veltroni, Assessore all’Ambiente Dario Esposito) conserva l’Ufficio Orti Urbani che continua a progettare l’unico “Parco ad Orti” ipotizzato, ma non lo realizza. Le sollecitazioni delle Associazioni e degli esperti cadono nel vuoto.
2008: Cade la Giunta Veltroni;
2010: Inaugurazione del primo “Parco ad orti”, con annunci di espansioni ed avvio di altre iniziative negli altri Municipi…...
Conclusioni
Il primo Parco ad orti c’è. Hanno tagliato il nastro, hanno fatto vedere come sono bravi e belli, hanno avuto in dono un cesto con le verdure ivi prodotte.
E’ probabile che rimanga l’unico per molto tempo, ma, comunque, c’è.
Quanto accaduto sollecita, necessariamente una domanda:
Perché la sinistra al Governo della città ha perso questa opportunità di creare un servizio apprezzato dai cittadini, di utilità ambientale ed urbanistica, a costi minimi, con importanti ricadute di consenso potenziale ?
Le componenti della possibile risposta sono molte ed ogni lettore può svilupparle.
Va però esplicitato che chi avrebbe potuto fare, chi avrebbe potuto ascoltare, decidere, stimolare, organizzare, in altre parole, governare, e non lo ha fatto, ha prodotto un danno all’ambiente, alla città, ai cittadini ed agli elettori che avevano contribuito a che fosse in quel posto.
Franco Paolinelli
sabato 17 luglio 2010
La Gelmini non è belzebù
Speriamo che sulla scuola il Pd non si faccia attirare dalle sirene conservatrici della galassia sindacale. C’è da scommettere che nei prossimi giorni riprenderà a suonare la frusta melodia dell’attacco alla scuola pubblica, del diritto del precario al posto garantito, del rifiuto di valutare il lavoro dei docenti.
Il Pd, invece, dovrebbe raccogliere la sfida riformista della Gelmini e rilanciare. Che si facciano i test Invalsi a settembre e a giugno e si accerti quali scuole non riescono a far migliorare i propri studenti e perché. Se fatti seriamente si vedrà che i livelli più bassi si registreranno nelle scuole paritarie cui tanto tiene la ministra. Ma, per carità, non si imbracci la bandiera della demagogia contro ogni misurazione. La Gelmini qualcosa di condivisibile la sta facendo: dal riordino dei licei, alla riorganizzazione dei corsi universitari.
Non basta? Certamente no. La riforma che attendiamo da anni, il superamento della media e la creazione di due cicli di studi, nessuno sembra in grado di farla. Neanche un governo che per i numeri che ha dovrebbe farsi beffe delle lobbies. Gli altri capitoli del libro dei sogni della scuola potrebbero essere intitolati all’eliminazione delle graduatorie provinciali, all’assegnazione ai presidi della facoltà di assumere insegnanti reclutandoli sul mercato, alla possibilità di diversificare gli stipendi sulla base della mission assegnata. Insegnare a Tor Bella Monaca non è la stessa cosa che farlo nel centro di Roma. Chi se la sente, sulla scorta di obiettivi previamente identificati, perché non dovrebbe guadagnare di più?
Una chicca, infine, di cui poco si parla: le scuole paritarie italiane all’estero. Sono spesso esempi di inefficienza e mediocrità dell’offerta didattica. Eppure continuano ad assorbire soldi, fuori da ogni controllo. Si trovano prevalentemente in Sudamerica e servono a pagare costose trasferte per gli esami di stato agli insegnanti e altrettanto costose “visite ispettive” condotte da funzionari dell’Istruzione e degli Esteri. Le dovrebbero controllare ordinariamente gli ambasciatori che non hanno naturalmente alcun interesse a denunciare situazioni critiche, perché avere una scuola nella propria sede è motivo di prestigio e finanziamenti. Il tutto con il consenso del sindacato. Non è un buon tema per i conservatori di casa nostra ?
p.a.
Il Pd, invece, dovrebbe raccogliere la sfida riformista della Gelmini e rilanciare. Che si facciano i test Invalsi a settembre e a giugno e si accerti quali scuole non riescono a far migliorare i propri studenti e perché. Se fatti seriamente si vedrà che i livelli più bassi si registreranno nelle scuole paritarie cui tanto tiene la ministra. Ma, per carità, non si imbracci la bandiera della demagogia contro ogni misurazione. La Gelmini qualcosa di condivisibile la sta facendo: dal riordino dei licei, alla riorganizzazione dei corsi universitari.
Non basta? Certamente no. La riforma che attendiamo da anni, il superamento della media e la creazione di due cicli di studi, nessuno sembra in grado di farla. Neanche un governo che per i numeri che ha dovrebbe farsi beffe delle lobbies. Gli altri capitoli del libro dei sogni della scuola potrebbero essere intitolati all’eliminazione delle graduatorie provinciali, all’assegnazione ai presidi della facoltà di assumere insegnanti reclutandoli sul mercato, alla possibilità di diversificare gli stipendi sulla base della mission assegnata. Insegnare a Tor Bella Monaca non è la stessa cosa che farlo nel centro di Roma. Chi se la sente, sulla scorta di obiettivi previamente identificati, perché non dovrebbe guadagnare di più?
Una chicca, infine, di cui poco si parla: le scuole paritarie italiane all’estero. Sono spesso esempi di inefficienza e mediocrità dell’offerta didattica. Eppure continuano ad assorbire soldi, fuori da ogni controllo. Si trovano prevalentemente in Sudamerica e servono a pagare costose trasferte per gli esami di stato agli insegnanti e altrettanto costose “visite ispettive” condotte da funzionari dell’Istruzione e degli Esteri. Le dovrebbero controllare ordinariamente gli ambasciatori che non hanno naturalmente alcun interesse a denunciare situazioni critiche, perché avere una scuola nella propria sede è motivo di prestigio e finanziamenti. Il tutto con il consenso del sindacato. Non è un buon tema per i conservatori di casa nostra ?
p.a.
martedì 13 luglio 2010
Per un nuovo anti berlusconismo
Dopo la vicenda Brancher, qualcosa è cambiato. Finora molti, tra cui chi scrive, hanno tenuto a distinguersi dall'anti berlusconismo travagliesco sulla scorta di questo ragionamento: il cavaliere è l'effetto di una lunga crisi italiana nata dalla delegittimazione della politica in favore della piazza. Da lì si è imposta sulla democrazia italiana un'ipoteca populista di cui B. è stato solo l'abile interprete. Per batterlo la sinistra avrebbe dovuto fare ritorno alla politica e indicare le riforme necessarie, non invocare i giudici o "Repubblica". Dopo Brancher, nominato ministro (senza deleghe) per evitare un processo, siamo veramente oltre. Bisogna dire con chiarezza che il problema è innanzitutto Lui. E indicare una via d'uscita democratica che non può essere al momento un governo frutto di qualche ribaltone. Serve un governo di unità nazionale che prepari l'elezione di una commissione costituente che si dedichi alla riscrittura della costituzione. Tutto il resto è economia e redistribuzione più equo del peso fiscale. L'unico modo per fare saltare il tappo italiano è l'uscita di scena del Nostro. E' tempo di un nuovo anti berlusconismo: riformista e anti oligarchico, lontano da giudici, corporations, star mediatiche. L'anti populismo di chi non si accontenta della rappresentazione dell'Italia come "paese mancato".
p.a.
p.a.
domenica 4 luglio 2010
Il "Noi" aperto
Sarò un sognatore, ma quel drappello di “attivisti” di ieri, venerdì 2 / 7, di fronte alla sede ed allo spaccio della Cooperativa agricola multifunzionale, Cobragor, di Roma ovest, mi ha colpito. Gli ho detto che erano “belli” mi avranno preso per matto, che poi è la verità, ma vorrei che sapessero cosa m’appariva bello in loro.
Preparavano la festa della sezione PD del vicino quartiere Palmarola, anziani e giovani, donne e uomini, indaffarati a spostare tavoli nell’aia, ad armeggiare per preparare la loro festa. Ma dicono “vieni anche tu”, lo dicono tutti, con un bel sorriso sincero.
Ho percepito in quei visi l’idea semplice del “noi aperto”, un atteggiamento emotivo, un invito, che non sentivo da anni.
Lo vivevo, tanti anni fa, nelle sezioni PCI di quartiere, anche a Roma, lo respiravo nei circoli Arci di ogni paesello toscano in cui brigavo.
Era un “noi” che accoglie ed ha il piacere di farlo, invita a condividere le speranze, le responsabilità e l’identità necessaria per realizzare l’inclusione possibile.
M’ha sorpreso poiché oggi non lo s’incontra facilmente. Si sbandiera, invece, il “noi chiuso” o si sopravvive di consumismi autistici ed è ovvio, poiché per proporre inclusione ci vuole una comunità tanto forte da proporsi, tanto serena da aprirsi. Cosa rara nella fase di transizione in cui viviamo, ancora senza identità dove avere “speranza” è molto difficile.
Quindi grazie “compagni” parola ormai quasi desueta, ma da reinventare, grazie per quei 10 minuti di serenità e fiducia che mi avete donato.
Peraltro, l’utile della felicità l’ho reinvestito subito in qualità. L’ho speso, infatti, allo spaccio della Cooperativa, tutto bio, tutto locale, e vedremo se la moglie approverà.
Franco Paolinelli
Preparavano la festa della sezione PD del vicino quartiere Palmarola, anziani e giovani, donne e uomini, indaffarati a spostare tavoli nell’aia, ad armeggiare per preparare la loro festa. Ma dicono “vieni anche tu”, lo dicono tutti, con un bel sorriso sincero.
Ho percepito in quei visi l’idea semplice del “noi aperto”, un atteggiamento emotivo, un invito, che non sentivo da anni.
Lo vivevo, tanti anni fa, nelle sezioni PCI di quartiere, anche a Roma, lo respiravo nei circoli Arci di ogni paesello toscano in cui brigavo.
Era un “noi” che accoglie ed ha il piacere di farlo, invita a condividere le speranze, le responsabilità e l’identità necessaria per realizzare l’inclusione possibile.
M’ha sorpreso poiché oggi non lo s’incontra facilmente. Si sbandiera, invece, il “noi chiuso” o si sopravvive di consumismi autistici ed è ovvio, poiché per proporre inclusione ci vuole una comunità tanto forte da proporsi, tanto serena da aprirsi. Cosa rara nella fase di transizione in cui viviamo, ancora senza identità dove avere “speranza” è molto difficile.
Quindi grazie “compagni” parola ormai quasi desueta, ma da reinventare, grazie per quei 10 minuti di serenità e fiducia che mi avete donato.
Peraltro, l’utile della felicità l’ho reinvestito subito in qualità. L’ho speso, infatti, allo spaccio della Cooperativa, tutto bio, tutto locale, e vedremo se la moglie approverà.
Franco Paolinelli
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