Che Gilda Policastro sia una delle migliori voci della nuova narrativa italiana lo avevamo già intuito dai suoi due precedenti romanzi, Il farmaco (2010) e Sotto (2013). Cella (2015) ce ne dà una definitiva conferma, unitamente alle ormai antiche e tristi considerazioni sulla funzione della critica. Se si vuole capire qualcosa di un autore si verifichi se possiede una lingua, come da antica lezione continiana. E' da lì che la visione del mondo rivela, o meno, coscienza letteraria. Policastro una sua lingua ce l'ha, eccome. Partendo da un incedere regolare, brevi periodi paratattici scanditi dalla punteggiatura, la scrittura indaga nei più nascosti interstizi della sofferenza. Soluzione prevalentemente sintattica ché il lessico, secondo un uso ormai invalso negli scrittori italiani, è adattato al registro medio.
Il dolore, connesso alle relazioni di potere sottese ai legami affettivi, è l'universo che il romanzo vuole esplorare. In Cella non c'è via d'uscita, né redenzione, i personaggi sono assorbiti entro una spirale negativa cui rimanda l'allegoria punitiva riferita alla protagonista. La vicenda si svolge in una imprecisata provincia del sud in cui una giovane donna racconta il suo progressivo disfacimento: prima amante di un dongiovanni in carriera (un medico, figura centrale del notabilato meridionale) che presto si stanca di lei non prima di averla sottoposta ad una iniziazione a pratiche estreme, quasi escort con la complicità del suddetto eroe, madre di una figlia anaffettiva, amante occasionale del suo figlioccio, fino all'inevitabile depressione cui segue l'autoisolamento. Assistiamo ad una messa in scena dell'umiliazione che l'uso della prima persona non porta verso ripiegamenti intimistici o lirici, ma scandisce entro una narrazione a forte valenza argomentativa, frutto di uno sguardo vigile sul reale cui, a mio parere, non è estranea l'attività critica dell'autrice.
p.a.
G. Policastro, Cella, Marsilio, € 14,00, Kindle 4,99.