Mario Monti, la sera del 25 novembre a Che Tempo Che Fa ha affermato che i docenti hanno difeso interessi corporativi rifiutandosi di lavorare due ore in più per liberare risorse per la scuola ed ha aggiunto che si sono fatti scudo degli studenti per difendere questi interessi.
Gramellini, la sera successiva, ha
commentato in modo totalmente negativo quelle affermazioni difendendo gli
insegnanti, la difficoltà del loro lavoro, le condizioni in cui sono costretti
ad operare, la loro retribuzione ben al di sotto degli altri paesi europei, ha
precisato che le ore di lavoro erano sei e non due in più e senza retribuzione ecc …
Desidero partire da questo dibattito
per dare il mio contributo alla riflessione sulla scuola e sugli insegnanti.
Sono un’ insegnante di lettere presso
un liceo delle scienze umane (Psicopedagogico) di Roma, ho 58 anni e – rebus
sic stantibus (!) – andrò in pensione nel 2017. Ho cominciato a lavorare nel
1978: quattro ore di supplenza settimanali in una scuola media a tempo pieno,
sperimentale, dove un gruppo motivato e impegnato di docenti
insegnava a ragazzi di periferia, pluribocciati da altre scuole, portatori
di handicap anche gravi; si mangiava in classi nel sottoscala, si facevano
consigli di classe e riunioni pomeridiane interminabili, e scrutini che
duravano fino a tarda sera; si era costituita una biblioteca scolastica con
libri di testo che venivano consegnati gratuitamente ai ragazzi che poi li
restituivano alla fine dell’anno. Affermare che si lavorava con pochissimi
mezzi e in condizioni disagiate è dir poco.
Ho amato subito questo lavoro, così
tanto da non considerarlo neppure tale se non nei momenti in cui sono costretta
a redigere qualcosa di burocratico ed inutile che nessuno leggerà,
né utilizzerà mai.
Allora ero convinta che tutto sarebbe
cambiato, che le cose sarebbero migliorate, che l’articolo 3 della
Costituzione, laddove afferma che la Repubblica si impegna a rimuovere le cause
che impediscono la realizzazione dell’uguaglianza tra i cittadini, sarebbe
stato attuato in primo luogo da una scuola pubblica, gratuita per i poveri, con quindici alunni per classe
con i quali svolgere una didattica individuale. Una scuola a tempo pieno dove
si potesse lavorare come lavorava Don Milani.
E invece ho assistito al degrado
lento e progressivo, a riforme che si limitavano a mettere qualche pezza a
colori per fare finta che la scuola fosse più moderna e si rinnovasse; a
riforme lasciate per aria o fatte a partire dalla fine, ovvero dagli esami di
Stato, invece che prendere in mano tutto l’impianto e ricostruirlo dalle
fondamenta, a riforme che non erano altro che “forme” di risparmio. Ho visto
classi sempre più numerose, il precariato divenire una piaga, la continuità
didattica scomparire, le vecchie lavagne ritornare, le sedie e i banchi
malandati rimanere delle stesse dimensioni di quelli dei miei nonni con una
popolazione di giovani sempre più alti; i bagni degli studenti restare con le
porte che non si chiudono e senza carta igienica, i libri di testo rincarare,
le bocciature ritornare, la dispersione e l’abbandono scolastico crescere, i
laureati diminuire, i figli dei più poveri e dei meno colti rimanere tali, i
figli dei colti e dei ricchi incrementare le loro possibilità non grazie alla scuola pubblica, bensì allo
studio all’estero, ai corsi di inglese privati.
Tutti i governi che si sono succeduti
sembra che si siano seriamente impegnati a trascurare e impoverire la scuola pubblica ma mai a cessare di
finanziare quella privata, come ancora oggi, nonostante le ristrettezze, si
continua a fare. E così la funzione che
la Costituzione le riconosce e le attribuisce è stata disattesa. E questo –
sono convinta – non a caso.
Nonostante ciò, insieme a molti
irriducibili colleghi, ho continuato con lo stesso entusiasmo, lo stesso piacere
e la stessa energia a lavorare con i ragazzi. Anzi, durante il colpo di grazia
inferto alla scuola dai governi Berlusconi, ho fatto del mio impegno una sorta
di risposta rivoluzionaria: è vero, “vogliono affossare la scuola pubblica”,
ebbene, non è scioperando inutilmente, non è agevolando più o meno sotterraneamente
autogestioni ed occupazioni studentesche che mi opporrò a questo, ma lavorando di più e meglio, offrendo ai
miei studenti le opportunità di discussione, di approfondimento, di letture, di
esperienze che questa sconquassata condizione ci permette.
Arrivo ora alla questione con la
quale ho aperto questo mio discorso: i docenti e la realtà del loro impegno
lavorativo.
1 (continua)