Pubblichiamo la parte finale del saggio di Armando Savater, Riaprire la questione rivoluzionaria, apparso su
(...)
Le comuni
La politica classica propaga il deserto
perché è separata dalla vita: si fa in un altro luogo con altri codici
in altri tempi… Fa il vuoto (astrazione dei mondi sensibili per
governare) e quindi lo estende. La rivoluzione sarebbe al contrario un
processo di ripopolamento del mondo: la vita allora potrebbe affiorare,
dispiegandosi e autorganizzandosi da sola, nella sua irriducibile
pluralità.
Il CI chiama “comune” la forma in cui si
potrebbe realizzare questo dispiegamento autorganizzato della vita. La
parola “comune” ha almeno due sensi (oltre l’evocazione storica): una
relazione sociale e un territorio.
La comune è da un lato, un tipo di legame: di fronte all’idea esistenziale secondo cui ciascuno ha la sua vita. la comune è il patto, il giuramento, l’impegno di affrontare il mondo uniti.
La comune è da un lato, un tipo di legame: di fronte all’idea esistenziale secondo cui ciascuno ha la sua vita. la comune è il patto, il giuramento, l’impegno di affrontare il mondo uniti.
D’altro lato è un territorio. Luoghi
vivi in cui si iscrive fisicamente un certo tipo di condivisione, la
materializzazione di un desiderio di vita comune.
Il CI propone allora di formare delle
tribù, delle bande? Non esattamente, perché la comune è diversa dalla
comunità, non vive rinchiusa e isolata, altrimenti si cristallizza e
muore, ma sempre attenta a quel che le sfugge e la supera, in una
relazione positiva con il di fuori. Né mezzi per un fine, né fini in se
stesse le comuni seguono una logica di espansione e non di
autoaccentramento.
Stiamo parlando di politica locale, di
quartiere? Non esattamente, perché il territorio della comune non è dato
anticipatamente, non preesiste, ma è la comune che lo attiva, crea e
delinea, e il territorio offre rifugio.
Il territorio della comune non ha limiti fissi, è una geografia mobile e variabile, una costruzione permanente. Un gruppo di amici può essere una comune, una cooperativa può esserlo, un collettivo, un quartiere. Forse per capire meglio la proposta del CI è utile vedere il contrasto con la politica classica.
Il territorio della comune non ha limiti fissi, è una geografia mobile e variabile, una costruzione permanente. Un gruppo di amici può essere una comune, una cooperativa può esserlo, un collettivo, un quartiere. Forse per capire meglio la proposta del CI è utile vedere il contrasto con la politica classica.
Se la concezione classica ci fa pensare
che la politica si svolge in un luogo astratto e separata dalla vita, un
luogo eccezione che richiede un tipo di sapere ugualmente eccezionale,
la comune si costruisce dove uno sta, a partire da quel che rende la
vita rilevante, a partire dalle relazioni che ci sono, ricombinando i
saperi esistenti, dovunque si trovi il corpo, il desiderio e
l’attenzione. Si tratta di politicizzare la vita, non di mobilitarsi.
Se la concezione classica ci fa pensare
che la politica è guidata da una mappa precostituita (la sinistra contro
la destra, il proletariato contro la borghesia) le comuni disegnano
delle loro mappe e decidono con chi cooperare e con chi scontrarsi
situazione per situazione, punto per punto secondo una logica della
strategia e non una logica dialettica, ovvero partendo dall’amicizia
(incremento della potenza nell’incontro) e non dell’inimicizia
(unificazione per designazione di un nemico comune). Amici e nemici che
non sono entità astratte o ideologiche, ma sono concreti e situati, con i
quali abbiamo contatto, dei quali abbiamo esperienza, che aumentano
oppure ostacolano la nostra potenza. Se la concezione classica ci fa
pensare che organizzarsi equivale ad affiliarsi o partecipare in una
struttura unica, con un comando centralizzato, linee dall’alto al basso,
cinghie di trasmissione, formalismi omogenei, le comuni piuttosto si
compongono, si connettono, comunicano, si incrociano cooperano e
collidono senza articolarsi in una fantasmatica unità, altrettanto
plurali come lo sono le forme di vita sulla terra.
Il problema dell’organizzazione è quindi
il problema di pensare come circola l’eterogeneo, non come si struttura
l’omogeneo. La sfida di inventare forme e dispositivi di traduzione,
momenti e spazi di incontro, legami trasversali, intercambiabili,
occasioni di cooperazione eccetera.
L’universale non si costruisce mettendo
fra parentesi il particolare (situato, singolare), ma per
approfondimento, per intensificazione del particolare. In ogni
situazione c’è il mondo intero, se ci diamo il tempo per trovarlo
Sarebbe difficile per esempio pensare a una esperienza dotata di
maggiore capacità di interpolazione e al tempo stesso iscritta tanto
profondamente nel suo territorio come lo zapatismo. Come dice il poeta
Miguel Torga, “lo universal es lo local sin los muros”.
L’organizzazione più importante,
finalmente, è la vita quotidiana stesa in quando rete di relazioni
suscettibile di attivarsi politicamente qui o là. Quanto più densa è la
rete, quanto maggior qualità hanno le relazioni, maggiore è la potenza
politica di una società.
Elogio del tatto
Anche le rivoluzioni si sono pensate a
partire del paradigma di governo: un soggetto contrapposto al mondo
(l’avanguardia) che lo spinge nella buona direzione; il pensiero come
scienza e sapere con le maiuscole: l’azione come applicazione di questo
sapere; la realtà come materia informe da modellare; il processo
rivoluzionario come sottile aggiustamento del rapporto tra mezzi e fini.
Forzare le cose dall’esterno: le
rivoluzioni che si fanno da questo punto di vista finiscono in un
disastro e bruciano i rivoluzionari nel volontarismo. Essere militanti,
nel paradigma di governo implica lo star sempre incazzati con quello che
accade perché non è quello che dovrebbe accadere; sempre rimproverando
gli altri perché non si interessano di ciò di cui dovrebbero; sempre
frustrati perché nell’esistente manca questo e quello: sempre angosciati
perché la realtà sta permanentemente nella direzione sbagliata e
occorre dirigerla, indirizzarlo. In questo modo non si impara nulla
dalla situazione, non si confida nelle forze stesse del mondo.
Ci sarebbe un altro percorso. Imparare
ad abitare pienamente, invece che governare, un processo di mutamento.
Lasciarsi trasformare dalla realtà, per poterla trasformare alla volta.
Darsi tempo per imparare i possibili che si aprono in questo o quel
momento In questo senso il CI afferma che “il tatto è la virtù
rivoluzionaria cardinale”. Se la rivoluzione è l’incremento dei
potenziali iscritti nelle situazione, il contatto è insieme quel che ci
permette di sentire da dove sta circolando la potenza dil modo di
accompagnarla senza forzarla, con attenzione. Di questa sensibilità
abbiamo bisogno più che di mille corsi di formazione politica.
“L’intelligenza strategica nasce dal cuore… incomprensione, negligenza e impazienza: il nemico sta qui.”