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domenica 11 gennaio 2015

Avanguardia e letteratura, oggi

        

L'onda lunga della restaurazione


Vi fu un tempo felice, il decennio '60, in cui tanto la poesia quanto la prosa conobbero in Italia uno straordinario momento di rinnovamento culminato nel rifiuto delle tendenze neo ermetiche e dei cascami del neorealismo che avevano fino a quel momento dominato. Vi era stata a fine anni '50 la stagione dello sperimentalismo promosso da "Officina", ma la via del romanzo lì proposta era ancora legata ai moduli del verismo (Testori, Pasolini) e, pure nel migliore autore espresso da quell'esperienza (Volponi), lontani dall'avanguardia. Né erano mancate  voci poetiche fuori contesto di livello molto alto, come nei casi di Cacciatore e Villa, ma si era trattato di esperienze isolate che nei laboratori in cui si preparava la neoavanguardia (Il Verri, in primis) non avevano lasciato grande traccia (Balestrini, Giuliani, Barilli, Guglielmi, 2013, p. 19 ss.)
Gli esempi italiani nel corso del '900 non erano mancati (da Svevo, Pirandello a Gadda, passando per Landolfi e il primo Palazzeschi), si trattava di riprendere un filo interrotto dal potente ritorno all'ordine iniziato già negli anni '20.  E guardare a lezioni straniere non così lontane nel tempo (Joyce del Finnegan's, Beckett, i surrealisti), ma da noi semi clandestine.
L'origine della neoavanguardia, come ripetono sempre i suoi protagonisti, è nella reazione al provincialismo incombente sulla produzione italiana di quegli anni (in letteratura, piuttosto che in arte o in musica dove gli argini erano stati rotti da tempo).
Nata dallo stretto contatto tra teoria e scrittura, come dimostra il ruolo centrale assunto da due giovani critici come Barilli e Guglielmi, la neoavanguardia aveva ochi e orecchi attenti a ciò che avveniva fuori d'Italia e fuori della letteratura.
Un fermento iniziato prima dei Novissimi ('61), Laborintus di Sanguineti era stato pubblicato nel '56, ed esauritosi con la frammentazione dei singoli percorsi da cui derivò la chiusura di Quindici ('69). Si concludeva il quindicennio più innovativo di un secolo che, con il manifesto futurista del 1909, era iniziato sotto le migliori premesse.
Vennero gli anni '70, caratterizzati dalla stanchezza dell'avanguardia. A parte la  eccezione del  gruppo coagulato intorno a Costa e Spatola nel laboratorio collettivo del Mulino di Bazzano e di poche altre, isolate voci, in poesia si assisté all'affermazione di un neo orfismo di ritorno cui la fortunata antologia di Milo De Angelis diede voce (La parola innamorata, '78).
Sul versante della prosa calma piatta, a parte le prove notevoli ma non ispirate da indirizzi condivisi di Volponi, Tadini, Gramigna, Celati, Arbasino, Malerba. Mentre all'inizio del nuovo decennio scoppiava il “caso” Eco con l'abnorme successo di vendite del Nome della Rosa, romanzo apripista di un filone di fiction storica tuttora attivo. Si impose, soprattutto nella prosa, una lunga fase di restaurazione stabilizzatasi e diversificatasi nei decenni successivi tanto da far apparire anacronistico l'utilizzo di categorie quali ricerca e, men che mai, avanguardia. Rimase sul campo un drappello di critici e poeti (il collettivo “Quaderni di critica” promotore del Gruppo '93, le voci coagulate intorno alla prima Alfabeta) artefici di un prezioso lavoro di ricucitura fra le generazioni; si è trattato, tuttavia, di esperienze relegate ai confini, cui era ed è precluso l'accesso alla grande editoria. Proprio qui si misura forse la distanza più grande con gli anni '60, nell'inattualità del discorso sull'avanguardia. L'avanguardia, nella sua doppia valenza di rifiuto radicale dell'esistente e ricerca sulle forme e sui modi della scrittura, è ancora categoria necessaria ai tempi che stiamo vivendo? L'esperienza degli anni '90 dimostra che, nonostante gli sforzi, non può essere suscitata in laboratorio, in una sorta di fusione fredda. O nasce e si afferma per una sua profonda, autonoma istanza o non è. O esce dai margini e si misura con i suoi nemici o non ha ragione di essere. Perché è a questa dimensione oppositiva, non alla categoria limitante del Nuovo, che va associata (Muzzioli, 2013, p. 7). 
Nell'ultimo decennio la narrativa italiana sembra vivere in una dimensione separata,  proprio quanto più è stata fagocitata dai meccanismi della macchina editoriale;  lontana da contaminazioni e dubbi scaturiti dal rapporto con l'universo dei media, al contrario di ciò che accade nelle arti visive, in musica, in poesia dove la ricerca è tutt'altro che ferma. Il romanzo italiano nel nuovo millennio ha preferito il conforto della trama e il rassicurante racconto della realtà - la nuova fiction di matrice giornalistica, gialla, il romanzo storico - quando non ha riscoperto la dimensione intimista in cui dominano drammi famigliari, intellettuali in crisi, adolescenti in fuga. I vari Lucarelli, Carlotto, Mazzucco, Piperno, Mazzantini, Avallone sono gli esponenti, certo diversi fra loro, di un riaffermato dominio di tradizionali modalità narrative. L'intrattenimento, il coinvolgimento complice del lettore è il tratto comune di questi autori, non a caso contesi dalle case editrici. Certo, ci sono eccezioni come l'indomito gruppo degli sperimentatori palermitani ex   Gruppo '63 (Perriera, recentemente scomparso, il duo Testa - Gambaro, ancora attivi), irregolari come Rezza, esordi molto promettenti come quello di Vasta, Pugno, Policastro le incursioni nella prosa di poeti come Ottonieri, Fontana, Voce, i giovani emersi dall’esperienza di Ex.it. Torneremo su  di loro, ma già da ora possiamo dire che si tratta di presenze che non fanno gruppo. Il rischio è la frantumazione, l'individualismo che caratterizzò la generazione degli anni '80, pur accompagnata da voci poderose come Benni, Tondelli, Busi. Quest’ultimo, negli anni seguenti confermatasi l'autore più importante della sua generazione, ha sviluppato una ricerca in proprio, confermata dall'ultimo El specialista de Barcelona, accompagnata da una fitta pratica di scrittura civile (Busi, 2013).
Un bilancio in chiaroscuro, come vedremo, riguarda la generazione degli anni '90, almeno per quanto riguarda i più contigui ad un lavoro di ricerca: Nove, Scarpa, Ballestra, Campo. In questi autori, la disponibilità all'eversione linguistica non si è tradotta in una più poderosa rottura delle trame, portando molti di loro ad esiti di maniera. Vi sono poi gli scrittori emersi negli anni zero dove non mancano voci coraggiose (Cortellessa, 2011). La partita dell'avanguardia non è ancora iniziata, ma è tutt'altro che impossibile. Va giocata uscendo da recinti generazionali ed equivoci nuovisti, contando su voci già affermate e su altre ancora in fieri. A patto che si recuperino progettualità teorica, riflessione sui linguaggi, sui moduli narrativi. Oggi come ieri – su questo la lezione di Sanguineti riguardo alla ineludibilità di una critica delle forme espressive, rimane un faro – anche le migliori intenzioni possono essere vanificate da forme orecchianti la tradizione. E' possibile percorrere la strada di una prosa che rifiuti il totem della trama e delle forme standardizzate dell'attuale “realismo di consumo”. E neghi “la comoda e alienante gestione della Continuità” (Balestrini). Ma per farlo sarà necessario superare alcuni scogli: se l'avanguardia nasce dal conflitto, da un rapporto non pacificato dell'artista-scrittore con l'esistente, resta da capire come lo si può declinare nell'attuale fase storico-politica. Serve piuttosto una scrittura che demistifichi la pacificazione incarnata dall'Intrattenimento e inizi a pensare un altro gioco fuori delle nebbie del presente. Laddove le categorie proprie dell'umanesimo non sono più attuali. Ne consegue l'impossibilità di affidarsi alla mera dimensione gutemberghiana e riprendere quel filone  iniziato nei '60, oggi quanto mai fecondo in poesia, che pratichi scritture contaminate con i linguaggi sonori e visivi. Per farlo bisognerà affrontare nodi teorici ed editoriali, assumendo la definitiva interdizione per l'avanguardia degli spazi di un tempo. La rete dà possibilità inedite di diffusione, ma da sola non basta. Ritorna la necessità di unire le forze, di adottare pratiche di gruppo, di allargare lo sguardo a ciò che accade nelle scienze (umane e non). Iniziando a fare il punto sul presente.



Ondate vere e presunte

Uno dei luoghi comuni preferiti dai conservatori riguarda l'esaurimento dell'avanguardia per l'impossibilità di elaborare il nuovo. A contraddire la tesi del tutto già visto e consumato è il ritorno ciclico dell'avanguardia nel corso del secolo scorso: dal futurismo (Marinetti, Palazzeschi, Lucini), alla ripresa inaugurata con i novissimi e prolungatasi, nelle sue diramazioni, fino ai '70, alla terza ondata dei primi anni '90. Ed è proprio da quest'ultima manifestazione dell'avanguardia che converrà partire. Facendo un confronto fra seconda e terza ondata emerge un dato difficilmente contestabile: nei '60 l'uscita dei novissimi inaugurò una feconda stagione poetica, cui la prosa seppe tenere testa (Barilli, 2000, p. 66). Arbasino, Manganelli (non organicamente iscrivibile al gruppo ma pienamente dentro quella vicenda), Malerba, Balestrini, Vasio, Sanguineti, Porta, Lombardi seppero dare alla neo - avanguardia una produzione in prosa dagli esiti naturalmente non omogenei, ma di tutto riguardo. Non così nella terza ondata. Il Gruppo '93 si identificò in una vivace stagione della poesia italiana, ancora in corso se si guarda alla presenza attiva di tanti dei suoi componenti (in particolare Cepollaro, Voce, Ottonieri, Frasca), cui non corrispose una produzione pari in prosa. Le presenze critiche che sostennero teoricamente il Gruppo – il gruppo di "Quaderni di critica" in cui si segnalava l'attivismo di Bettini, Muzzioli, Di Marco, Lunetta, il lavoro di Luperini – puntò tutte le sue carte sui poeti mantenendo una certa diffidenza nei riguardi della prosa. Così, quando Barilli e Balestrini, promossero “Ricercare” ('93), un laboratorio dedicato alle nuove scritture sulla scorta del metodo seguito nei convegni della neo – avanguardia, si materializzò la distanza tra scena poetica e narrativa. Non che mancassero all'inizio del decennio presenze interessanti – basti citare Ballestra, Campo, Culicchia – ma mancava una poetica comune frutto di un lavoro di gruppo cementato da riviste, prossimità territoriali (il gruppo dei poeti napoletani, Bajno, Cepollaro, Voce, Ottonieri, quello dei genovesi capeggiato da Frixione), lavoro critico e teorico. Un tratto comune i nuovi narratori lo avevano, il rigetto della dimensione iper individualistica degli anni '80. Il rifiuto, giocato in chiave di rivolta collettiva, nei riguardi delle ingiustizie prodotte dall'incipiente globalizzazione, del mondo degli adulti cui si opponeva lo sberleffo aggressivo e un po' cupo che rimandava alle strisce di Andrea Pazienza, la rivendicazione delle ragioni del corpo e  del sesso, un sottofondo libertario spiegabile con l'avvenuta consolidazione in alcuni strati giovanili della cultura del '77. La scrittura era ispirata ad una oralità spinta, sbracata che faceva erompere il “coro” dei parlanti, appartenenti al non troppo variegato arcipelago del precariato  giovanile universitario (Ballestra). Oppure la coralità si sviluppa al femminile come voce di dentro di una nuova identità collettiva che rifiutava i ruoli sociali e viveva nella critica radicale del maschio (Campo), o in una dimensione adolescenziale, fatta di riti da liceo, spinelli, sbornie, spleen bolognese (Brizzi). In questi romanzi la trama era ridotta al minimo, ma non depotenziata, in quanto permaneva un susseguirsi di avvenimenti slegati l'uno dall'altro che, tuttavia, non negavano al lettore l'identificazione. Siamo lontani dai potenti meccanismi di straniamento messi in campo dai poeti. In questi narratori risuonava un flusso narrativo senza interruzioni, scarsa l'attenzione agli oggetti, ai dettagli, alla descrizione;  prevalente l'ammiccamento al lettore giovane che in quelle pagine riconosceva la “sua” lingua. La temperatura rimaneva costantemente alta, a garanzia di un forte coinvolgimento emotivo. Così gli esordi di Ballestra, Campo, Brizzi, Culicchia si risolvono in una poetica naturalistica, da cui scaturisce un'operazione solo apparentemente eversiva, in fondo non lontana da quanto realizzato da Pasolini e Testori alla fine degli anni '50. La trama, la sua articolazione di incastri e situazioni plausibili, la tessitura spazio – temporale resistono e producono effetti piacevoli, lontano dalle operazioni di rottura proposte dai narratori della neo avanguardia. In Capriccio italiano,  Sanguineti aveva sovrapposto situazioni narrative o riflessive diverse, slegate fra loro senza nessun esito armonico, nel senso degli incontri e degli incastri di personaggi, perché la fonte della narrazione era il sogno;  in Barcelona, Lombardi aveva scelto di lavorare sull'accumulo di generi – dal giallo, al racconto politico, al diario personale –  scevro da qualsiasi ambizione sociologica o psicologica, prediligendo la maniacale sovrapposizione dei dettagli su cui si stagliava l'impotenza, significata dal “complotto” folle cui si affidava il protagonista; oppure il realismo destrutturato dell'esordio di Carla Vasio, ne l'Orizzonte, dove il materiale autobiografico era sottoposto ad un'operazione di raffreddamento in cui la trama - l'incontro tra un uomo e una donna che lascia presagire esiti psicologico sentimentali – era sottoposta ad un continuo rallentamento da cui emergeva l'interesse dell'autrice per la materialità. Il lettore rimaneva in tutti questi casi deluso, spiazzato, impossibilitato a comprendere quale dovesse essere il taglio di lettura: psicanalitico, realistico, politico? (Muzzioli, 2013, pp. 157-171, 131-141).
Anche l’esperienza cannibale è ascrivibile entro i confini di altri esordi “acidi” di anni ’90. La novità era costituita dall’esplicitazione del nero e del sangue, volti a far emergere il fetido della contemporaneità, il grado estremo dell’alienazione prodotta dalla società del consumo (Ammaniti-Brancaccio, Nove, Pinketts). Una scrittura delle atrocità quotidiane che rimaneva saldamente ancorata, come in ogni brillante operazione editoriale, alle sponde dell’intrattenimento garantito dal sicuro dipanarsi delle trame e dalla riconoscibilità delle situazioni. Inevitabile l’utilizzo di una lingua quasi invisibile, alla maniera dei dialoghi dei fumetti, che non distraesse dalle esplosioni pulp disseminate nella trama. Dati comuni a molti esordi degli anni ’90, alcuni dei quali (Santacroce, Campo, Nove, Scarpa) dotati di una forza tale da far sperare operazioni più ambiziose. Si tratta degli autori più dotati della generazione anni ’90,  attestati su un’idea di letteratura della crudeltà contigua all’esperienza cannibale.
Isabella Santacroce fin dagli esordi (Destroy, Luminal) ha prediletto atmosfere cupe, innestate sulla descrizione di un inferno famigliare su cui le sue protagoniste riversano esperienze estreme di sesso, violenza, autodistruzione. Percorso confermato da Zoo, V.M. 18, Amorino, opere nelle quali l’influsso sadiano è mescolato ad un lirismo violento all’insegna di amore e morte. La modalità narrativa è quella dello sfogo delirante che un onnipresente io narrante sviluppa grazie al monologo allucinato (Zoo) o al diario (Amorino). Una scrittura preziosa, apparentemente alta che assume talvolta i toni della ostentata falsificazione. All’orrore prodotto dall’universo borghese, le eroine della Santacroce contrappongono il piacere estremo messo in scena come sublime sovversione. Purtroppo, si tratta di materia difficile da trattare, facilmente soggetta all’ossidazione,   rivelata dalle insulsaggini in cui cade talvolta Amorino (le peripezie sessuali di Mr. Thompson). La strategia seduttrice della Santacroce si completa poi con il travestimento sadomaso che, con temerario sprezzo del ridicolo, accompagna  le perfomance dell’autrice. Dietro la maschera compaiono vecchie presenze dell’ideologia letteraria novecentesca: l’artista come personalità d’eccezione, sacerdote del piacere estremo che dispensa ai fedeli, l’adozione di una narrazione contigua al realismo. La vendibilità del prodotto è poi garantita dall’aura preziosa che circonda questi testi, garanzia per il lettore di compiere un’esperienza trasgressiva ma elegante, in fondo temperata dal manierismo della prosa. Il che chiude il cerchio di una scrittura in fondo rassicurante, alternativa elegante all’intrattenimento becero.
Rossana Campo ha scelto fin da Pieno di super (’93) di lavorare su storie corali di donne incentrate sulla rappresentazione di un’umanità al femminile in perenne lotta con la brutalità del mondo esterno. Le stravaganti, marginali eroine che popolano i suoi romanzi non solo si propongono di vendicare torti e resistere alle silenziose infamie che quotidianamente si compiono nelle metropoli, ma costruiscono un universo alternativo faticosamente protetto. Inevitabile che questo mondo al femminile si misuri con la dimensione della violenza e, di conseguenza, irrompa nella narrativa della Campo il giallo, seppure adattato alla tessitura rapsodica dei suoi testi, fin da Mentre la mia bella dorme (’99). Come nel Posto delle donne (2013) in cui la protagonista, si improvvisa detective per vendicare la morte violenta di una sua amica e finisce per accettare la proposta di “mettere su famiglia” pervenutale da una sua amante messa incinta dal solito maschio furbo ed egoista. Ma non è il giallo ad interessare la Campo, quanto la messa in scena di un femminile solidale e pieno di risorse contrapposto alla cupezza dei maschi. Inevitabile una certa evanescenza delle soluzioni narrative, come se la scelta di percorrere comunque la strada dell’intreccio non risultasse all’altezza del compito. E proprio perché non è quella della trama la cifra di questa prosa, sarebbe interessante vederla misurarsi senza reti di protezione. A partire da quel monologare incalzante, veloce che, sviluppato su di un efficace spartito anti lirico, ne riassume la qualità.
L’oscenità dell'esistente è la cifra della scrittura di Aldo Nove, fin dal fulminante esordio cannibale, Woobinda (’96). Nove è il più coerente e maturo interprete di una poetica dell’orrore quotidiano nel quale si muove un io narrante che, alla stregua di un esploratore negli inferi, compie la sua spietata missione di auto indagine. Ne La vita oscena (2010), abbandonando il registro paradossale di altre sue prove, non cocnede alcun respiro al lettore, chiamandolo a confrontarsi con lo squallore di una vita famigliare non lontana dalle atmosfere della Santacroce. Nove utilizza una prosa basica, frammentata, che nulla concede alla maniera, come se l’insorgenza della materia imponesse la scomparsa della scrittura. Così l’io narrante ci accompagna in un disperato viaggio segnato da alcool, droga, sesso al termine del quale si profila una nuova possibilità di vita.
Anche Scarpa è interessato alla degenerazione dell’Occidente, ma sviluppa trame più ampie, monta e smonta personaggi e micro situazioni, imponendo un ritmo forsennato fondato sull'accumulo, senza lavorare più di tanto sull’intreccio. In Kamikaze d’occidente sceglie di descrivere il vuoto utilizzando la chiave del diario scritto da uno scrittore italiano ingaggiato dal governo cinese per testimoniare la crisi morale dell’occidente. Nella folla di episodi che si susseguono, a farla da padrone è la pornografia che il narratore intradiegetico consuma compulsivamente in rete. Ma in Scarpa non c'è solo disperazione. Ne sono un esempio Stabat mater  (2008), la cui azione è collocata in un conservatorio femminile veneziano nel ‘700 in cui una giovane virtuosa del violino conquista la libertà grazie ad Antonio Vivaldi e Le cose fondamentali (2010), dono di scrittura ad un bambino appena nato cui il narratore, questa volta non esclusivamente affidato alla prima persona, consegna la sua esperienza affermando la sua fiducia nella letteratura come estrema attivazione dell’immaginario. Luci e ombre emergono da queste ultime prove: se per un verso abbiamo un quadro potente della degenerazione prodottasi nella società italiana
nell’ultimo ventennio, per un altro c’è da chiedersi quale sia la reale portata innovativa di questi testi. Se l’iperrealismo allucinato e senza scampo che costituisce il vero trait d’union di questi autori possa rappresentare una risposta adeguata nella condizione attuale. O se, al contrario, il rischio è di essere assorbiti nei rituali dell’industria letteraria ed essere venduti come ennesima riedizione maudit. L’immaginario simbolico entro cui si muove la letteratura occidentale è stato fissato nel ‘700 dai romantici e da allora è stato variamente assorbito e riutilizzato dalla produzione creativa (si pensi al cinema) occidentale. Le prime e le seconde avanguardie segnarono una cesura e qui risiedeva la loro forza sovversiva, unita al rifiuto dell’investitura della scrittura come operazione “responsabile”, che riceve fuori di sé la norma della propria azione. Per i  narratori che abbiamo considerato la percezione del caos, il deterioramento materico della vita conduce ad una sorta di inabissamento senza vie d’uscite sentimentali, ma lì ci si ferma, la narrazione mantiene un suo miracoloso ordine. Riecheggiando modelli consolidati.
L'avanguardia è impensabile senza conflitto, la sua ragione d'essere è nel rifiuto dell'esistente, nella creazione di un'alternativa, in primis linguistica. Il Gruppo '63 fu espressione di una rivolta iniziata contro l'establishment letterario, per alcuni estranea all'ideologia  e alla storia (Guglielmi), per altri destinata a rifiutare attraverso il linguaggio “le strutture stesse della società borghese” (Sanguineti). Oggi occorre ripartire guardando più dalla parte di Sanguineti che da quella di Guglielmi. Non per riproporre un improbabile binomio avanguardia - marxismo, quanto perché il lavoro di destrutturazione delle scritture tradizionali è stato talmente assorbito in ambito mediatico da risultare innocuo. Ma oggi dov'è il conflitto? Qual è la posta in gioco, tra quali attori si gioca la partita? Quali le forme linguistiche e letterarie che ne scaturiscono? E' dal linguaggio e dal suo rapporto con il contesto che occorre ripartire.
Una pista di lavoro è venuta dal variegato mondo dell'operaismo, ultima punta di diamante del pensiero critico. Nella trilogia inaugurata da Impero, Negri e Hardt hanno proposto una mappatura del nuovo capitalismo finanziarizzato su scala globale che avrebbe negli Stati Uniti d'America il suo principale centro di comando. Questo nuovo ordine si fonderebbe non più e non solo sull'industria ma sull'informatizzazione del lavoro, nel quale agisce il nuovo proletariato della conoscenza. Questo soggetto sociale, precarizzato, sfruttato dai dispositivi sempre più pervasivi del bio-potere costituirebbe il nucleo di una nuova moltitudine che dovrebbe riconoscersi, capire la propria potenza e divenire  soggetto costituente di un nuovo ordine alternativo al capitalismo. Su percorsi similari si muovono pensatori come Paolo Virno, analisti e teorici dei media (Bifo, Formenti) , ed è la linea editoriale intorno a cui si è costituita Alfabeta2, novello esempio di informazione culturale militante. Il tentativo è quello di coniugare la triade Foucault, Deleuze-Guattari con i movimenti espressi dalla crisi del 2008.  Tuttavia, essendo in fase di stanca la stagione dei vari Occupy, ciò cheemerge, almeno negli esempi migliori,  è una sorta di cartografia della devastazione psichica prodotta dal capitalismo globale con accenti sempre più cupi. Vi è poi un pensiero critico tuttora attivo, seppure abbondantemente minoritario, nell'ambito della sinistra il cui esponente nobile è Mario Tronti, altro ex dell'operaismo. In questo caso non è il movimentismo a prevalere, ma la tessitura paziente nel grande partito della sinistra cui si propone una lettura conflittuale della tematica del lavoro. La prospettiva è diversa da quella dei movimentisti, ma in entrambi i casi ci si muove nell'ambito di un'alternativa al capitalismo che prima o poi dovrebbe materializzarsi. I percorsi di formazione della soggettività sembrano ormai passare per altre vie, anche linguisticamente (si pensi alla pratica politica delle donne) provenienti da altri attori fuori definitivamente dei paradigmi novecentesci. Che, oltre ad opporsi, sperimentano nuove possibilità di vita, di relazione, di produzione dell'immaginario. E' da qui, da questo consapevole nomadismo che sta ormai definendo nuove soggettività che la ricerca letteraria può trovare le sue ragioni (Braidotti, 2014, p. 195 ss.).

 Non si parte da zero

Ma chi ha detto che non c’è ? L’adagio di una canzone degli anni ’70, potrebbe fotografare la condizione nella quale si dibatte oggi la ricerca in letteratura. Le opere e gli autori ci sono, ma non si vedono, causa il combinato disposto della frammentazione; come negli anni ’80 non si producono le condizioni per una poetica comune. Il rischio è di scambiare per nuove scritture in realtà radicate nella tradizione o ancora invischiate nella affabulazione postmodernista. Eppure la vecchia talpa della avanguardia scava ancora. Nelle righe che seguono indichiamo alcuni autori in grado di unire uno sguardo critico non pacificato sul presente alla ricerca sul significante. Il quadro è naturalmente men che mai esaustivo, ma un punto di partenza c'è.
Antonio Rezza tra il ’98 e il 2007 ha pubblicato presso Bompiani quattro romanzi di taglio violentemente anti narrativo. In Non cogito ergo digito (’97), la destrutturazione della trama è prodotta dalla moltiplicazione di micro frammenti narrativi sviluppati su una folla di personaggi e situazioni che rendono impossibile al lettore ricostruire un percorso. Lo stesso filo temporale è alterato da presenze storiche (Caterina d’Austria) e da continui salti nel tempo e nello spazio il cui unico tratto comune è il non protagonista, Carlo, il cui stravolto andirivieni disegna un caos per niente festoso. La scrittura automatica di Rezza, erede dei procedimenti surrealisti in era digitale, rompe il confine tra il razionale e l’irrazionale, l’onirico e il reale, materiale e spirituale. Il tema è quello della mutazione, dell’alterazione corporea, dell’impazzimento, del degrado (“la vita umana è brutta e faticosa per colpa del genere umano”, p. 69), come nelle performance teatrali costruite con Flavia Mastrella. In Sonno (2005) e Credo in un solo oblio (2007) si accentua la dimensione onirica e visionaria disegnata dai rispettivi protagonisti, alternativa al deserto di affettività della società “reale”. Nel secondo dei due romanzi il tocco leggero, paradossale di Rezza descrive una cupa allegoria in cui la morte non si distingue dalla vita e i vivi fanno i figli con i morti.
Tommaso Ottonieri fin dal precoce esordio, Dalle memorie di un piccolo ipertrofico ('78), ha sviluppato un poetica dell'ipertrofia linguistica che lo ha portato a sperimentare una scrittura pre logica condensata nella forma primigenia dell'espressione visiva e sonora. Una prosa che ha generato, già nelle Memorie, una sorta di italiano maccheronico, lavico, una lingua volutamente indicibile come se fosse partorita dalle viscere di un mondo irraggiungibile, per poi emergere in tutto il suo essere inclassificabile, oltre - visibile (coro da l'acqua). Come notò Sanguineti, il tentativo di dire il testo affondando nel suono per poi approdare al senso rimanda ad una dimensione primitiva, pre - codificata del linguaggio in cui il suono è la parola. I successivi lavori di Ottonieri hanno confermato la predilezione per il magma linguistico e l'assenza dell'io, perso nel flusso affabulatorio sviluppato su un sostrato onirico, allucinato di cui è facile riconoscere il legame con i paesaggi Landolfi. E' una prosa che va ascoltata, lasciandosi andare al flusso acido della lingua che si addentra nelle viscere della terra o segue il flusso dell'acqua che mai si ricompone in armonia, in gradevole suono.
Nelle prove successive, Crema acida (1997) e L'album crémisi (2000), la messa in onda radiofonica ha preceduto la pubblicazione a stampa. La lingua primitiva dello ipertrofico lascia qui il posto ad un pastiche articolato di materiali pop tratti dai nomi delle merci, dalla pubblicità, da intarsi letterari spesso di provenienza avanguardistica.
Le prose brevi di Album crémisi, dedicate ad un viaggio straniato nell'universo alienato del consumo si avvalgono tanto del registro della beffa e dell'irrisione, quanto di quello della visionarietà e dell'incubo, attingendo ad un vasto repertorio musicale (King crimson)  e cinematografico (Cronenberg, Lynch). Testi prodotti negli anni '80, anticipatori della vicenda cannibale, di cui a posteriori evidenziano i limiti di profondità nell'utilizzo non meramente citazionisitico del materiale trash e nella piena rivendicazione di continuità riguardo alla storia delle avanguardie.
Ne Le strade che portano al Fucino (2007), Ottonieri ha lavorato su un montaggio di testi composti e pubblicati in momenti e luoghi diversi seguendo il principio della stratificazione. La piana del Fucino diviene il luogo misterioso dove convivono un confuso presente degradato (con riferimenti pop che vanno da Maradona a Russ Meyer) ed iper tecnologico (le installazioni sotterranee di Telespazio), un passato immemorabile in cui gruppi di eretici dolciniani sopravvissuti alle persecuzioni e un popolo oscuro, i servitori di Angizia, si aggirano nel sottosuolo alla ricerca di divinità detentrici della luce. Al lettore il compito di ricomporre il rizoma (secondo la definizione datane da Gilda Policastro) e trovare vie di percorrenza nei vari strati del testo. Il pastiche che ne scaturisce si avvale dell'abruzzese-campano già sperimentato nelle prove precedenti, di preziosismi, termini tecnici, citazioni cinematografiche (Antonioni) e televisive seguendo un procedimento di accumulazione tipico delle scritture espressioniste; la novità sta nella varietà dei registri utilizzati - scena, descrizione, narrazione extradiegetica - da cui scaturisce una scrittura che, pur avvalendosi della paratassi, ne depotenzia l'elemento lineare adottando strumenti di frattura quali l'inciso, l'anastrofe, lo spazio bianco all'interno di una sequenza, la sovrapposizione di immagini (come insegna la tecnica video del cromakey). Ne scaturisce una possibilità di lettura non tenuta alla continuità, ma che sceglie i diversi blocchi narrativi accettando la strutturazione del testo come allegoria aperta, secondo le modalità di fruizione delle arti visive.
Ad una radicale scelta anti narrativa, spesso in connessione con i linguaggi visivi, si ispirano le scritture raccolte nell'antologia Ex.it originata dalla tre giorni svoltasi ad Albinea nell'aprile 2013. Elemento comune di molti testi in prosa (Bellomi, Broggi, Guatteri, Inglese, Bortolotti) è la registrazione asettica del reale grazie all'utilizzo di una sintassi elementare, spesso puramente nominale. L'effeto prodotto è l'accumulo di materiali senza l'obbligo di ricondurli all'interpretazione, con la consapevolezza che la letteratura non ha più, foucoultianamente, un linguaggio segreto da restituire. Riscatto del materiale sul simbolico. La nuova sperimentazione proposta da Ex.it rimanda ad alcune esperienze della neoavanguardia come la scuola di Palermo (Testa, in particolare), le sperimentazioni di poesia visuale e sonora di Adriano Spatola e Corrado Costa. Ma fonda una nuova poetica che dialoga con ciò che da anni si sta muovendo nella ricerca negli Stati uniti e in Francia: un nuovo oggettivismo che nomina, enumera il reale aprendo la scrittura alla sua incommensurabile estraneità.
Corsi e ricorsi dell'avanguardia, una categoria da rivendicare fino in fondo in alternativa alle solite tesi scettiche riecheggianti la fine della storia (Muzzioli).
Certo, non più praticando lo scandalo, la sovversione, ma sottraendosi al gioco dell'intrattenimento e dell'individualismo, laddove far scaturire nuovi linguaggi, stili, pensieri. 
D'altra parte, mai come in questo momento  si è riattivato un fermento positivo che vede insieme nuove voci e presenze consolidate. Tra queste ultime si conferma Giovanni Fontana (1946) all'attivo una pluridecennale ricerca iniziata nel laboratorio spatoliano e proseguita tra performance, teatro, esperimenti visuali e sonori. Del 2012  Questioni di scarti, raccolta di testi verbali e visivi, premiato l'anno successivo come miglior libro in prosa dalla giuria del felicemente risorto premio Feronia - Città di Fiano. La scrittura di Fontana si muove per strappi continui, disegnando una progressiva accumulazione di materiali in strutture sintattiche ridotte al minimo, scheletriche. Ma, contemporaneamente, dotate di una loro dinamica interna fatta di anafore, allitterazioni, rime interne secondo un susseguirsi di corrispondenze e scarti. Non segue la linea neo oggettivistica di altri filoni della ricerca, affidandosi ad un io argomentante che grida il suo sdegno al cospetto della omologazione delle esistenze, allegorizzata dalla produzione degli scarti. I rifiuti come bulimica ed inevitabile dimensione dell'esistenza, intossicata dall'insensata corsa verso l'accumulazione. Una via che porta la scrittura - sonda di Fontana a svelare la corrosione in atto della dimensione più intima dell'umano. La discarica come lager dei giorni nostri con il suo crematorio in cui gli scarti entrano solidi per uscire allo stato gassoso. Arduo trovare nel panorama attuale della ricerca in Italia una scrittura di una potenza pari a quella di Fontana, tanto concentrata su se stessa quanto generosa nel declinare la sua partecipazione alla dimensione comune. 
Un utile contributo alla mappatura del nuovo è offerto dal volume curato da Andrea Cortellessa nel 2011. Scritture potenti in grado di produrre faglie di senso e di linguaggio, accanto a testi afoni scaturiti da poetiche deboli la cui spinta vitale sembra esaurita. È il caso del filone padano germinato dal lavoro di Giannni Celati (Nori, Cornia, oltre a Cavazzoni) ispirato ad una scrittura della stupefazione (l'espressione è dello stesso Nori) nata da uno sguardo stralunato sul mondo alimentato dall'irruzione strabordante dell'oralità. Procedimento quest'ultimo alimentato non solo dal registro basso, ma che si avvale anche di riferimenti classici, filosofici, teologici. Una scrittura tanto incline al monologo dilagante, quanto allergica (ma su questo è in atto una virata nell'ultimo Nori) alla trama, disincantata e coerentemente espressione del caos che la sovrasta. Tuttavia, non ci si sottrae alla sensazione di un'operazione ormai di maniera. Così come appaiono poco convincenti poetiche che coniugano la denuncia dell'abbrutimento prodotto sui corpi e sulle anime dallo sfrutamento globalizzato ad una narrativià piena, pronta a soddisfare i bisogni di lettori non sprovveduti; come nel caso di Bajani (Se consideri le colpe), di cui Franco Cordelli ha correttamente colto il legame col lirismo di Pavese, di Lagioia (Occidente per principianti), fiducioso nella possibilità di rappresentare i sentimenti umani come un Tolstoj postmoderno, Pincio (M., Un amore dell'altro mondo), per il quale la combinazione di tradizione e pop, la più efficace versione postmoderna offerta dalla narativa zero, si risolve in una macchina narrativa accattivante, specchio del caos.
Più incisive, più all'altezza dei tempi, ci sembrano scritture che lavorano sulla dissoluzione del soggetto, oltre i confini delle identità strutturate. Lavorando sulle macerie del presente e sull'esplorazione di nuovi significati, nuove possibilità di vita. In questo senso la stessa distopia, con la sua valenza tutta negativa (claustrofobica) non basta più. Tanto meno servono le certezze della trama ancora legate ad una significazione unidirezionale, logocentrica, antropocentrata.
Così il lavoro del già citato Bortolotti, molto attivo anche in poesia, che nel recente Tecniche di basso livello, descrive un viaggio attraverso il paesaggio artificiale del nostro benessere. I riti del consumo, gli oggetti, gli sguardi sono colti dal punto di vista di un narratore corale che li enumera in brevi numerate attente ai dettagli, ai particolari meno evidenti seguendo i quali, tuttavia, si attiva un meccanismo straniante che porta a scordare immediatamente ciò che si vede. È entrando in queste cavità, utilizzando le tecniche di chi vi è pienamente immerso, che si manifesta la consapevolezza, non accompagnata da distacco ironico,  dell'indecifrabile degrado in cui siamo immersi.
Anche Laura Pugno si muove lungo i sentieri dell'oggettività, combinandola ai toni apocalittici della favola nera (Sleepwalking). In Sirene, ci conduce negli abissi in cui la specie umana si è rifugiata per sfuggire alla luce devastante del sole e dove ha conosciuto le creature mitologiche in grado di rinnovare l'antico conflitto con il femminile: possedere ed essere divorati. Siamo in una dimensione minerale, forse unica alternativa alla disumanizzazione lasciata in superficie, che ricorda le discese nel ventre della terra di Ottonieri. La sintassi, tuttavia, è sottoposta ad un meccanismo di sottrazione brutale che le consente di raggiungere un'elementarità non incline (come in Ottonieri) alla descrizione quanto alla rappresentazione dei moti individuali.   Una scrittura che più profondamente di ogni altra è in grado di rappresentare la spoliazione tecnocratica cui è sottoposta la specie nell'era del postumano, tanto da avere perso la distinzione tra il proprio corpo e la natura. Come ne La caccia racconto nel quale la pratica della telepatia (che unisce i due fratelli protagonisti) si coniuga all'esplorazione di un mondo lontano e irredimibile (la Gora) in cui il rapporto degli umani con la specie animale si inverte e si intuisce la possibilità di una nuova condizione. Tema già presente in Quando verrai e ripreso nel successivo Antartide con una attenuazione della radicalità oggettivistica delle prove precedenti , come se la Pugno avesse sentito il bisogno di inserire una dose di realismo, soprattutto sul piano della caratterizzazione psicologica, in grado di rendere più riconoscibili i personaggi.
Gilda Policastro ha esordito nella poesia, parallelamente al contemporaneo lavoro critico, per poi passare al romanzo. Il farmaco recupera il tema novecentesco della malattia. Enza è un'infermiera che assiste con dedizione i malati, ma non è esente dal provare disgusto per loro tanto da sognarne la fine. E lo stesso prova per il marito, per il figlio neonato. Tutto l'universo che la circonda è affetto dal male, tutti i personaggi sono collocati negli inferi, dove, celinianamente, sperimentano sadismo e masochismo. Senza il piacere, il brio di Sade. Enza è disumanizzata dalla sofferenza che le fa assumere tratti degradati, animaleschi che anche in questo caso portano alla letteratura (Verga, Tozzi). Altro indizio l'uso dell'indiretto libero che fa scorrere la narrazione per giustapposizione  di costruzioni paratattiche brevi, come scudisciate che immunizzano dagli scivolamenti nell'io. Il motore dei personaggi è il corpo, la registrazione dei suoi movimenti, la sua materialità, la possibilità di affermare non tutta la verità, ma la sua verità, come suggerisce la finale citazione sanguinetiana.  Così non vi è una trama, ma un susseguirsi di scene come è giusto che sia quando non si vede, si procede a tentoni. L'amore, il farmaco, la possibile via di fuga che accarezza e vuole anche far male all'amato, non si trova. Ci si può limitare ad immaginarlo, a scriverlo.
In Sotto la macchina del dolore è ancora più situata, se possibile più strutturata rispetto al romanzo precedente. La dimensione carnale dei rapporti di potere è allegorizzata dal microcosmo consunto, svelato dalle cronache di questi anni, dell'università. L'eterna attesa del concorso, la rivalità tra i paria alla corte del barone, il rito degli esami sono i dispositivi di un degrado crudele che le due protagoniste si autoinfliggono. Corpi che si offrono al controllo totale di un'autorità, quella del docente anziano, i cui segni di disfacimento sono già evidenti. Niente si sottae al gioco crudele degli egoismi, degli abbandoni, della volontà di dominio. Solo la rinuncia finale al concorso in favore dell'amica fa pensare ad una nuova possibilità, all'allusione ad una diversa relazionalità, da nuove possibilità tutte da conquistare.
 Giorgio Vasta lavora sulla ricognizione sotto la scorza del presente senza indulgere a facili chiave di lettura pop, anzi privilegiando la distanza rispetto alla materia di cui scrive. L'Italia degli anni '70. Un paese che contiene già tutti i tratti dell'impazzimento successivo, ne Il tempo materiale sono allegorizzati in una Palermo descritta per una volta prescindendo dalla chiave di lettura mafiosa; protagonista della vicenda è un giovane quanto improbabile gruppo di aspiranti emulatori affascinati non dalle gesta quanto dalla lettura dellla realtà italiana, dal linguaggio prodotto dalle Brigate rosse. L'interesse primario di Vasta è il linguaggio che rimanda all'unica azione che gli uomini possono mettere in campo per sottrarre la materia extragrammaticale alla sua mancanza di direzione. La letteratura è la lotta strenua per restituire un senso, "ascoltare il rumore della trasformazione infinita della materia in dolore e del dolore in tempo". E solo allora, alla fine delle parole, può nascere un nuovo tentativo. Quando, secondo la splendida immagine finale del romanzo, termina il linguaggio ed inizia il pianto.
Franco Arminio è un viaggiatore impavido nel sottosuolo della crisi. Laddove meno appare, nel mondo silente e cupo dei paesi di montagna in lui estraneo a qualsiasi idillio. La paesologia, l'indagine appassionata di ciò che si muove nel ventre dei paesi italiani, è un sismografo del marginale in grado di rilevare il disfacimento prodotto dalla tenaglia mafioso - consumista. In Terracarne, Arminio dà vita ad una scrittura  spoglia in cui l'io narrante, destituito di ogni pretesa onnicomprensiva, dà voce al piccolo mondo in disfacimento che gli scorre davanti. L'effetto è quello di una voce corale, come nel più recente Cartoline dai morti, che emerge dalle viscere di quel mondo dimenticato (l'Irpinia orientale, provincia fra le province). Ma non è uno sguardo disperato, tanto meno nichilista; nei paesi Arminio coglie la possibilità in grado di capovolgere il paradigma della modernità malata (il cemento, la macchina come icone perverse), per affermare un nuovo progetto vitale. Che non può che nascere dalla dimensione collettiva, dall'impegno nel cuore del vivere associato, laddove la letteratura può recuperare un senso divenendo, leopardianamente, risposta al "bisogno di entusiasmo, di amore, di vita" (lettera al fratello Carlo del 25 novembre 1822).
Si tratta di autori molto diversi tra loro, non riconducibili nemmeno genericamente a formulazioni di poetica comuni. L'elemento che li accomuna tuttavia è l'inabissamento nel divenire fluido e violento del presente, la consapevolezza lucida (nichilista, in alcuni) della deflagrazione del soggetto. Scritture che sembrano ripartire da zero che non si avvalgono più, neanche per destrutturarli come ha fatto la post modenità, dei vecchi linguaggi dell'umanesimo. Che non vedono approdi facili nel pop, nell'infinito serbatoio delle storie, nell'ormai logoro codice dell'estremo. Che siano i prodromi di una post letteratura,  di un lavoro collettivo spiegato sulle possibilità del presente ? Accumulo di materiali fuori contesto, elenchi, descrizioni, prosa  anti lirica, ne costituiscono i requisiti. È forse questa  l'ultima chance che la letteratura può giocarsi nell'era del postumano. Contribuire, insieme a quel che rimane delle scienze umane, alla nascita di una nuova soggettività liberata  dalla pervasività del codice del consumo contro nulla può il vecchio alfabeto umanista, libera di sviluppare, come sempre partendo dall'immaginario, la sua irriducibile potenza, le sue possibilità di futuro.


Bibliografia

F. Arminio, Vento forte tra Lacedonia e Candela. Esercizi di paesologia, Laterza, Bari-Roma 2008.
Id., Nevica e ho le prove. Cronache dal paese della cicuta, Bari-Roma: Laterza, Bari-Roma 2009.
Id., Terracarne, Mondadori Milano 2011.
N. Balestrini, A. Giuliani, R. Barilli, A. Guglielmi, Gruppo '63, Bompiani, Milano 2013.
R. Barilli, E' arrivata la terza ondata. Dalla neo alla neo - neoavanguardia, Testo e immagine, Torino 2000.
R. Braidotti, Il postumano. La vita oltre l'individuo, oltre la specie, oltre la morte, Derive Approdi, Roma 2014.
A. Busi, E baci, Il Fatto, Roma 2013.
A. Cortellessa, Narratori degli anni zero, "L'illuminista", n. 31-32-33 - a. XI, 2011.
Ex.it. Materiali fuori contesto, Albinea 2013.
P. Di Stefano, La congiura contro i siciliani (l’esclusione di Edoardo Cacciatore e altri sperimentatori), http://www.absolutepoetry.org/GRUPPO-63-La-congiura-contro-i.
G. Fontana, Questione di scarti, Polìmata, Roma 2012.
F. Muzzioli, Il gruppo '63. Istruzioni per la lettura, Odradek, Roma 2013.
T. Ottonieri, Coro da l'acqua per voce sola, Edizioni d'If, Napoli 2003.
Id., Dalle memorie di un piccolo ipertrofico, Noreply, Milano 2008.
L. Pugno, Sleepwalking, Sironi, Milano 2002
Id., Sirene, Einaudi, Torino 2007.
Id., Quando verrai, Minimum fax, Roma 2009.
Id., Antartide, Minimum fax, Roma 2011.
Id, La caccia, Ponte alle grazie, Milano 2012.
G. Policastro, Il farmaco, Fandango, Roma 2010.
Id., Sotto, Fandango, Roma 2013.
A. Rezza, Non cogito ergo digito, Bompiani, Milano 1998.
Id., Son(n)o, Bompiani, Milano 2005.
Id., Credo in un solo oblio, Bompiani, Milano 2007.

Paolo Allegrezza

pubblicato su Mondoperaio n.12/2014 e su facebook