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domenica 24 maggio 2015

YOUTH

Che Sorrentino fosse il migliore regista italiano su piazza non vi erano dubbi. Youth è un seminario sulla giovinezza tenuto da due anziani. Non la giovinezza anagrafica, ma quella del desiderio, della ricerca, della sperimentazione. Che non finisce mai perché la vita non si ferma neanche quando si finisce in un albergo da fiaba ai piedi delle alpi svizzere e si è accuditi come infanti. Il flusso non si interrompe, le concatenazioni sono sempre all'opera, inaspettate; come nella cena del dialogo muto tra Fred, ex direttore d'orchestra, e le mucche al pascolo o nella passeggiata di Nick con la giovane prostituta. Per cui può capitare che un'algida coppia di anziani tedeschi scopra la felicità di un orgasmo nei boschi, senza dire una parola. Il desiderio che libera, non quello triste indotto dal consumo, erompe dal silenzio. Gli si oppone la brutalità di altri suoni, come ne La Grande Bellezza, prodotti dal rumore di fondo che ci invade. Sorrentino è l'unico autore contemporaneo ad assumere il silenzio come tema del proprio cinema. Qualcosa di simile l'ha sperimentata anni fa Herzog, regista peraltro diversissimo. I due, e prima di loro Leopardi, hanno in comune l'intuizione che per scendere nelle viscere della vita e afferrarne la potenza bisogna salire. Sul Cerro Torre o su una parete artificiale. Non verso dio che non è contemplato, ma in cima al mondo, alla natura.

p.a.


http://www.ilmattino.it/MsgrNews/MED/20150411_c4_sorrentino.jpg

mercoledì 13 maggio 2015

Il gioco che vale la pena giocare

Oggi esistono due possibilità di partecipare al gioco nello spazio pubblico. Una è quella tradizionale legata alla possibilità di influenzare con la partecipazione democratica la governance nazionale che, a sua volta, è alquanto ridimensionata rispetto al passato. Chi può sostenere la piena sovranità di un governo nazionale rispetto alle ragioni del governo finanziario mondiale ? Chi può credere nella sovranità di Renzi, Tzipras, Hollande, ed altri rispetto alle scelte compiute da chi governa gli algoritmi che muovono i capitali a Pechino, Seoul, Londra, New York ? Non che quel gioco abbia perso la sua nobiltà, ma è in larga parte dentro un copione già scritto. Entro due poli: quello positivo assomiglia al modello Germania - capitalismo baltico, quello negativo alla Grecia. Se si fanno bene i compiti si va verso l'uno se si fanno male si va verso l'altro. In Italia, Renzi è probabilmente quanto di meglio si può disporre per vincere in questo gioco.
Vi è poi un altro gioco e riguarda non la governance, ma i corpi, la produzione della soggettività, le forme di vita. E' su questo livello immateriale che agisce il biocapitalismo dei nostri giorni; pur non avendo abbandonato quello materiale ispirato al modello fordista che, tutt'altro che estinto, é trasferito in periferia o nella catena di montaggio della narcoeconomia. Fu Michel Foucault, nei suoi corsi dei primi anni '80 al Collège del France, ad individuare la competizione tra biopotere e biopolitica che resiste. Non si tratta più di conquistare il potere, come pensavano il comunismo classico e il terrorismo anni '70, ma costruire soggettività alternative, liberate. E perché non tornare a studiare il tanto di buono prodotto nel '68 e e seguenti ? Il black power, le comuni, l'esperienza italiana degli indiani metropolitani, il femminismo della differenza. Tutte vicende unite dal lavoro su una trasformazione della soggettività. E' ciò che spiega il successo degli attuali fondamentalismi, a cominciare da quello iraniano del '79,  cartografato da Foucault con i suoi articoli sul Corriere della sera. Si tratta di spostarlo dal terreno teocratico, che da noi assume il volto identitario e razzista, a quello della liberazione. Cominciando ad aprire una discussione sulle pratiche possibili. Qui ed ora.
p.a.

http://irvine-cct.wikispaces.com/file/view/erykah.png/394862950/erykah.png

lunedì 4 maggio 2015

Il politico è privato (A. Savater da urgeurge)


Pubblichiamo la parte finale del saggio di Armando Savater, Riaprire la questione rivoluzionaria, apparso su


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Le comuni

La politica classica propaga il deserto perché è separata dalla vita: si fa in un altro luogo con altri codici in altri tempi… Fa il vuoto (astrazione dei mondi sensibili per governare) e quindi lo estende. La rivoluzione sarebbe al contrario un processo di ripopolamento del mondo: la vita allora potrebbe affiorare, dispiegandosi e autorganizzandosi da sola, nella sua irriducibile pluralità.
Il CI chiama “comune” la forma in cui si potrebbe realizzare questo dispiegamento autorganizzato della vita. La parola “comune” ha almeno due sensi (oltre l’evocazione storica): una relazione sociale e un territorio.
La comune è da un lato, un tipo di legame: di fronte all’idea esistenziale secondo cui ciascuno ha la sua vita. la comune è il patto, il giuramento, l’impegno di affrontare il mondo uniti.
D’altro lato è un territorio. Luoghi vivi in cui si iscrive fisicamente un certo tipo di condivisione, la materializzazione di un desiderio di vita comune.
Il CI propone allora di formare delle tribù, delle bande? Non esattamente, perché la comune è diversa dalla comunità, non vive rinchiusa e isolata, altrimenti si cristallizza e muore, ma sempre attenta a quel che le sfugge e la supera, in una relazione positiva con il di fuori. Né mezzi per un fine, né fini in se stesse le comuni seguono una logica di espansione e non di autoaccentramento.
Stiamo parlando di politica locale, di quartiere? Non esattamente, perché il territorio della comune non è dato anticipatamente, non preesiste, ma è la comune che lo attiva, crea e delinea, e il territorio offre rifugio.
Il territorio della comune non ha limiti fissi, è una geografia mobile e variabile, una costruzione permanente. Un gruppo di amici può essere una comune, una cooperativa può esserlo, un collettivo, un quartiere. Forse per capire meglio la proposta del CI è utile vedere il contrasto con la politica classica.
Se la concezione classica ci fa pensare che la politica si svolge in un luogo astratto e separata dalla vita, un luogo eccezione che richiede un tipo di sapere ugualmente eccezionale, la comune si costruisce dove uno sta, a partire da quel che rende la vita rilevante, a partire dalle relazioni che ci sono, ricombinando i saperi esistenti, dovunque si trovi il corpo, il desiderio e l’attenzione. Si tratta di politicizzare la vita, non di mobilitarsi.
Se la concezione classica ci fa pensare che la politica è guidata da una mappa precostituita (la sinistra contro la destra, il proletariato contro la borghesia) le comuni disegnano delle loro mappe e decidono con chi cooperare e con chi scontrarsi situazione per situazione, punto per punto secondo una logica della strategia e non una logica dialettica, ovvero partendo dall’amicizia (incremento della potenza nell’incontro) e non dell’inimicizia (unificazione per designazione di un nemico comune). Amici e nemici che non sono entità astratte o ideologiche, ma sono concreti e situati, con i quali abbiamo contatto, dei quali abbiamo esperienza, che aumentano oppure ostacolano la nostra potenza. Se la concezione classica ci fa pensare che organizzarsi equivale ad affiliarsi o partecipare in una struttura unica, con un comando centralizzato, linee dall’alto al basso, cinghie di trasmissione, formalismi omogenei, le comuni piuttosto si compongono, si connettono, comunicano, si incrociano cooperano e collidono senza articolarsi in una fantasmatica unità, altrettanto plurali come lo sono le forme di vita sulla terra.
Il problema dell’organizzazione è quindi il problema di pensare come circola l’eterogeneo, non come si struttura l’omogeneo. La sfida di inventare forme e dispositivi di traduzione, momenti e spazi di incontro, legami trasversali, intercambiabili, occasioni di cooperazione eccetera.
L’universale non si costruisce mettendo fra parentesi il particolare (situato, singolare), ma per approfondimento, per intensificazione del particolare. In ogni situazione c’è il mondo intero, se ci diamo il tempo per trovarlo Sarebbe difficile per esempio pensare a una esperienza dotata di maggiore capacità di interpolazione e al tempo stesso iscritta tanto profondamente nel suo territorio come lo zapatismo. Come dice il poeta Miguel Torga, “lo universal es lo local sin los muros”.
L’organizzazione più importante, finalmente, è la vita quotidiana stesa in quando rete di relazioni suscettibile di attivarsi politicamente qui o là. Quanto più densa è la rete, quanto maggior qualità hanno le relazioni, maggiore è la potenza politica di una società.

 Elogio del tatto

Anche le rivoluzioni si sono pensate a partire del paradigma di governo: un soggetto contrapposto al mondo (l’avanguardia) che lo spinge nella buona direzione; il pensiero come scienza e sapere con le maiuscole: l’azione come applicazione di questo sapere; la realtà come materia informe da modellare; il processo rivoluzionario come sottile aggiustamento del rapporto tra mezzi e fini.
Forzare le cose dall’esterno: le rivoluzioni che si fanno da questo punto di vista finiscono in un disastro e bruciano i rivoluzionari nel volontarismo. Essere militanti, nel paradigma di governo implica lo star sempre incazzati con quello che accade perché non è quello che dovrebbe accadere; sempre rimproverando gli altri perché non si interessano di ciò di cui dovrebbero; sempre frustrati perché nell’esistente manca questo e quello: sempre angosciati perché la realtà sta permanentemente nella direzione sbagliata e occorre dirigerla, indirizzarlo. In questo modo non si impara nulla dalla situazione, non si confida nelle forze stesse del mondo.
Ci sarebbe un altro percorso. Imparare ad abitare pienamente, invece che governare, un processo di mutamento. Lasciarsi trasformare dalla realtà, per poterla trasformare alla volta. Darsi tempo per imparare i possibili che si aprono in questo o quel momento In questo senso il CI afferma che “il tatto è la virtù rivoluzionaria cardinale”. Se la rivoluzione è l’incremento dei potenziali iscritti nelle situazione, il contatto è insieme quel che ci permette di sentire da dove sta circolando la potenza dil modo di accompagnarla senza forzarla, con attenzione. Di questa sensibilità abbiamo bisogno più che di mille corsi di formazione politica.
“L’intelligenza strategica nasce dal cuore… incomprensione, negligenza e impazienza: il nemico sta qui.”