lunedì 24 ottobre 2016
Lispector, Pugno, Ernaux. Potenza dei corpi, vie di fuga, uso della memoria.
Pubblicato su mondoperaio, ottobre 2016
Si deve a Giorgio Agamben la teorizzazione del concetto di nuda vita intesa come zoé, vita del singolo prima della sua qualificazione linguistica e politica nel bios. La nuda vita è lo strato di vita nascosto, che esiste clandestinamente, oscurata dalla vita sociale. Il viaggio nella nuda vita, e la sua necessaria connessione alla vita di tutti, è forse l'impresa più avvincente che la letteratura, in tempi di evaporazione della dimensione collettiva, possa compiere. Chi si mette sulle tracce della nuda vita non è interessato alla biografia, tanto meno alla propria. Vuole superare l'unicità della vita singola, privata per aprirsi all'incontro con l'altro fino ad immaginarne un uso politico. La scrittura di Lispector, Pugno, Ernaux ci incoraggia ad immaginare un'uscita dall'io atomizzato verso vie di fuga alternative ad un presente ridotto a mercato delle vite. Si tratta di riprendere quel lavoro sulla soggettività cui alludeva Foucault quando parlava della possibilità di concepire la nostra vita come un'opera d'arte; lontani dal disincanto oggi imperante, mossi dal desiderio non narcisistico di produrre nuovi e liberi modi dello stare nel mondo. Superando le poetiche della distopia che, pur efficaci nell'innescare la demistificazione, palesano la loro insufficienza.
Nelle pagine conclusive di Vicino al cuore selvaggio, Clarice Lispector pone la sua protagonista nel segno dell'appropriazione della nuda vita: “sono Joana, tu sei un corpo che vive, io sono un corpo che vive, nient'altro”. Dichiarazione d'intenti che Lispector, da appassionata lettrice di Spinoza, svilupperà nei successivi romanzi, ma che in questo libro d'esordio rivela già le sue potenzialità eversive rispetto ad una scrittura della rappresentazione. Lispector non narra e non descrive, lavora sulle concatenazioni; su squarci di esperienza che ne aprono altri, senza soluzione di continuità, procedendo vertiginosamente verso la destituzione di sé. Lontana dall'introspezione, come dal vitalismo, vòlta alla mera costruzione di sé come soggetto liberato; una pratica della letteratura estranea al mainstream neo naturalistico oggi in voga, perennemente alla ricerca del “grande romanzo” che spieghi ciò che è già noto. Varie le letture della sua opera. Da quella ispirata a Deleuze di Rosi Braidotti, a quella mistica di Luisa Muraro, ripresa anche da Emanuele Trevi. Lispector è estranea al misticismo religioso forte della dichiarata opzione spinoziana, collocata nell'immanenza. Il suo misticismo non porta all'incontro con Dio, ma esplora la possibilità di divenire Dio, in questo procedendo su una strada simile a quella di D.H. Lawrence. Mette i suoi personaggi fuori della storia in una sorta di stato originario della materia vivente da cui partire per conquistare la beatitudine che è frutto di un lungo corpo a corpo col vivente. Fino all'affermazione, come ha notato Braidotti, di uno specifico femminile altro dall'interpretazione logocentrata del mondo e dal patriarcato che ne deriva. La felicità per Lispector la si può raggiungere, sulle orme di Spinoza, qui ed ora. A patto che, come afferma la Lori di Un Apprendistato o il Libro dei piaceri, l'io esisto significhi “amare un altro essere che, lui, capiamo che esiste”. Vicino al cuore selvaggio si sviluppa intorno ad una giovane donna che, rimasta orfana bambina e ritrovatasi adulta vittima di un matrimonio infelice, sperimenta l'immersione nel vivente; come nell'idillio, nel senso leopardiano dell'interrogazione di sé nel tutto. Rinunciando a trama, caratteri, ambienti, il suo personaggio sperimenta il viaggio verso il “cuore selvaggio” della vita, allegoria di una ri nascita inscindibile dall'esperienza del mondo. Personaggi estranei ad una forma di vita (il lavoro, la famiglia, la socialità) che li caratterizzi, mossi in un costante divenire che supera la frattura fra arte e vita. Il che comporta l'assenza di un rapporto tra il soggetto e il mondo secondo categorie definite quali l'estraneità, il degrado, il gioco crudele degli affetti, lo sberleffo, l'intrigo, lo scenario distopico. Seguendo l'esempio di Lispector, la letteratura nell'era del postumano non trova più le sue ragioni nella rappresentazione delle opere del vivente ma nella loro disattivazione. Facendosi interprete della forma più alta di libertà, la produzione di sé. La letteratura, ormai affrancata dalla dialettica fra essere e mondo, può raccontare questo sottrarsi del soggetto ed il suo parlare “parole non pensate e lente” (Lispector). La mela nel buio è il testo in cui lo smantellamento del soggetto si compie nelle forma più completa. La trama, in questo caso più articolata, si sviluppa intorno alla figura di Martim, ingegnere in fuga dopo il tentato omicidio della moglie approdato in una fazenda in cui vivono due donne. Assunto come bracciante, si cala perfettamente nella sua nuova condizione fino all'inevitabile arrivo della polizia. Ma il romanzo non è qui. E' nella possibilità di ridefinire se stessi, fuori degli accidenti della vita sociale in uno spazio – natura posto al di là del bene e del male. Nella lunga parte introduttiva, vero e proprio testo nel testo, Lispector esplora la relazione del vivente con la materia, fino all'individuazione di una comune appartenenza. “Io ti amo, disse il suo sguardo ad una pietra, perché l'improvviso mare pieno di grida turbava profondamente le sue stesse viscere, e in quel modo lui guardò la pietra”. I personaggi di Lispector esplicitano tutto, non alludono, fedeli alla consegna di avere finalmente dismesso la ragione e di essersi spossessati del linguaggio. Divenire parte della materia, come il divenire animale kafkiano di cui parla Deleuze, significa mantenere i piedi ben saldi a terra e lì costruire la propria liberazione. “Non si sa da dove si viene e non si sa verso dove si va, ma che noi facciamo esperienza, noi facciamo esperienza ! E' questo ciò abbiamo, Ermelinda, è questo ciò che abbiamo !”. Esperienza priva di consequenzialità, esposta a molteplici traiettorie, ma che non prevede alcuna dissoluzione nella trascendenza. Le essenze rimangono separate, ciò che si compie è un'esperienza di beatitudine di cui il soggetto è unico attore (Deleuze sul terzo grado di conoscenza di Spinoza). La passione secondo G.H., riduce al minimo la trama. Tutto si compie dentro un appartamento di un palazzo borghese di Rio, dove G.H., dopo avere incontrato una grossa blatta ed averla uccisa, intraprende un monologo che la porta definitivamente fuori del tempo spazio vissuto. In questo che è il testo più radicale di Lispector, la protagonista è chiamata a sprofondare nel tempo, nei secoli dei secoli, entro un fango che contiene le radici della sua/nostra identità. Il farsi blatta porta G.H. a scoprire che il mondo non è umanocentrico e che una nuova nascita è possibile solo partendo da una negazione. In nome della nuda vita, della fuoriuscita nella materia viva. Come in un rovesciamento del mito platonico, G.H. non torna nella caverna perché il mondo è falso, ma vi propone un'immersione ancora più profonda, continuando il viaggio. “No, non devo elevarmi mediante la preghiera: devo, satura, diventare un nulla che vibra. La cosa di cui parlo a Dio non deve avere senso! Se ne avrà vorrà dire che sto sbagliando”. E se la via d'uscita non è nella trascendenza, è nel dono di sé agli altri, nella vita comune che sconfigge la solitudine che di nulla ha bisogno e si nega alla relazione.
Aver bisogno non isola una persona. La cosa ha bisogno della cosa: basta vedere il pulcino che avanza per accorgersi che il suo destino sarà quello che la carenza farà di lui, il suo destino è quello di unirsi come gocce di mercurio, sebbene, come ogni goccia di mercurio, il pulcino abbia in se stesso un'esistenza interamente completa e tonda”.
Ne L'ora della stella, un narratore di secondo grado è alle prese con un intreccio sentimentale di ambientazione popolare che, tuttavia, dà voce ad un'idea di letteratura fondata sul rifiuto dello stile. Quel grado zero della scrittura, sintattico e lessicale, che costituisce l'elemento più profondamente kafkiano della sua opera. Cui si aggiunge “la noia di avere a che fare con i fatti”, così innervato nella vicenda letteraria del '900. In Lispector non vi è un mondo da conoscere, magari lavorando sulla materia sociale con adeguato procedimento di deformazione, come in Gadda; né il suo fare tabula rasa della soggettività ha analogie con i percorsi di Céline, Bataille, dell'ultimo Pasolini, in quanto ad operare la dissoluzione non è un evento esterno, ma un paziente lavoro di destituzione del vecchio io il cui posto è preso dalla gioia di aprirsi al mondo. Una letteratura della contro effettuazione, quella di Lispector, che mostra l'uso possibile degli eventi e ne sviluppa la forza liberante. Una sorta di manuale in grado di sperimentare le strategie di sottrazione al dominio del possesso e, di conseguenza, all'infelicità. Mai come oggi, di fronte all'atomizzazione cui sembrano destinate le nostre vite, i destini di arte, letteratura, filosofia sono intrecciati nella affermazione di quel “niente altro che essere” di cui Deleuze parla a proposito di Spinoza. Serve una letteratura che ci ricordi come l'individuo non manchi di nulla, nella sua essenza vi è la potenza che lo realizza.
Laura Pugno, fin dall'esordio (Sirene), ha lavorato sul labile confine tra umano e non umano. Si tratta di una scrittura solo apparentemente liquida che rimanda, esasperando la trasparenza lessicale e sintattica tipica di tanta prosa italiana contemporanea, a forme di vita sottratte all'identificazione. Per questo lo spazio sociale, riconducibile al bios, è ridotto al minimo così come la comunicazione tra i personaggi. E' nella natura la possibilità di individuare una dimensione non pensabile, non riconducibile alla coscienza, della vita. Una scrittura che non ha nulla di cupo, ma che guarda alla vita e allude alla nostra capacità di liberarla. Come in Antartide (uscito nel 2011, ma scritto dopo La caccia), dove alla natura come possibile vie di fuga – l'Antartide in cui lavora e sogna di tornare il protagonista, il bosco limitrofo alla casa di cura in cui si aggira il misterioso Thierry – si accompagna il tema della ricerca di sé. Non solo come vivere, ma se vivere; così nel quasi suicidio di Matteo dopo un'immersione in Antartide e nella desolante condizione in cui sono immersi tutti i personaggi. Ma Antartide non è un romanzo disperato perché, come in Lispector, anche per Pugno la forza della vita non si esaurisce in ciò che conosciamo, c'è sempre un fuori cui guardare. Nella sequenza finale del romanzo, Matteo, come Tessa ne La ragazza selvaggia di fronte alla neve, si ritrova al cospetto del vento. Immersi nella natura i personaggi di Pugno non riusciamo ad immaginarli bloccati dalla tristezza, ma più che mai disposti ad agire. Ne La caccia (2012), romanzo che racconta di due fratelli in fuga la cui comunicazione avviene telepaticamente, la dimensione extrasensoriale è l'estrema risorsa sottratta al controllo del potere incarnato da oscuri miliziani. Entrambi fuggiranno nella Gora, terra di misteriose e imprendibili creature (come Rousse, la donna volpe) da cui discendono, in cui immaginiamo possano sperimentare una nuova vita. L'impressione del lettore è di entrare in una storia già iniziata destinata a continuare dopo l'ultima parola del romanzo, come se i personaggi fossero tutt'altro che unici ma solo una delle infinite versioni di un essere nel mondo che si perde nel tempo. Il che spiega la loro scarsa caratterizzazione, come se fosse sufficiente abbozzarne i tratti principali per renderne il senso. La ragazza selvaggia (2016), il cui titolo è esplicitamente riferito al caso del ragazzo dell'Aveyron del film di Truffaut, è il testo nel quale l'investimento narrativo si realizza apparentemente al livello più alto. Tessa, una giovane ricercatrice che conduce una vita solitaria in una riserva naturale, ritrova una ragazza scomparsa anni prima nel bosco. Dasha, orfana di Chernobyl, era stata adottata con sua sorella Nina da una ricca famiglia italiana segnata da un destino tragico: la sua gemella Nina vive in stato vegetativo in seguito ad un incidente, la madre Agnese è persa nella follia, Giorgio Held, il padre, muore dopo aver tentato invano di recuperarla alla vita sociale. Non inganni un inaspettato, viste le precedenti prove, risvolto giallo legato alla scomparsa di Dasha, provocata dalla gemella Nina forse in competizione per l'affetto della nuova famiglia. Il romanzo è una riflessione sul tema della libertà e se quest'ultima non sia ormai pensabile che in una nuova condizione postumana che la sottragga all'utilitarismo ordinatore che domina i rapporti sociali; non è un caso che anche in questo romanzo Pugno offra una rappresentazione devastata della famiglia, luogo di infelicità e malattia da cui fuggire. Un romanzo che conferma quanto non le interessino le trame e le intersezioni tra i personaggi, ma la condizione in cui si trovano e le possibilità che scoprono di avere. Dasha e Tessa scelgono di fuggire verso il buio dei boschi per sperimentare, grazie alla potenza gioiosa che muove i loro corpi, ciò di cui saranno capaci. La speranza è che Pugno mantenga questo rigore, non pensi mai di scrivere “romanzi” e, soprattutto, continui ad esplorare il bosco.
Annie Ernaux lavora sulla memoria in una dinamica di allusioni alla vita di tutti noi che fa della sua opera una sorta di voce collettiva. Non solo ne Gli anni, il suo romanzo più importante, ma anche in testi come L'altra figlia o Il posto in cui tratta degli affetti più intimi, di vicende familiari. Proust ricorre alla memoria perché è il solo modo per rivivere il piacere, una contemplazione del vissuto che diviene una sorta di opera d'arte, come insegna Swann. La sua scrittura non nasce nella stanza foderata di sughero, ma nella costante interrogazione di sé. E dell'altro. Ma è necessario fare i conti con il passato che è sempre reso entro una fitta trama di eventi nei quali la voce che narra non è mai unica o irripetibile. Nei romanzi di Ernaux la vita è sempre assimilabile ad altre vite. Dalla famiglia di piccoli commercianti normanni, alla scrittura, alla politica, al femminismo, alla perdita delle speranze collettive, al divorzio, si snoda la vicenda di una donna che narra di sé prendendone le distanze, consapevole della sua dimensione comune. La storia individuale è dentro quella di tutti. Come in Proust il racconto di una vita non può che passare dal racconto degli altri e dei tanti io che costituiscono il narratore. Ernaux è una delle voci più potenti nel rappresentare questa dimensione multiforme della soggettività, il suo essere irriducibile ad una singolarità, il suo divenire anche in relazione alla memoria. Ne Gli anni, persone, oggetti, marito, figli, amanti, fluiscono spossessati della loro appartenenza ad “una” vita. Come l'Algeria, il maggio '68, l'elezione di Mitterand formano degli strati rispetto ai quali non c'è spazio per alcuna nostalgia. L'autobiografia impersonale immagina la letteratura come una archeologia consegnata ai posteri, una voce che consegna “la voce di un tempo in cui non saremo mai più”. Ne Il posto il racconto della vita del padre, si rivela la messa in scena di un tradimento: della figlia, emancipatasi nella doppia veste di insegnante e scrittrice, nei confronti della famiglia di origine. Il tradimento comporta la scissione da sé, l'impossibilità di una ricomposizione dell'io. Quando si sceglie di uscire da un posto, poi difficilmente se ne trova un altro altrettanto solido. Ernaux ribalta il tradizionale meccanismo della narrazione autobiografica che privilegia l'individuo rispetto al contesto nel quale agisce; è il contesto ad attraversare il soggetto, a determinarlo, a renderlo consapevole dell'alterità. A dare alla letteratura la forza di gabbare il tempo, restituendo il senso di ciò che non è più. Come ne L'altra figlia, attraversato dalla presenza – assenza di una sorella morta prematuramente e mai conosciuta cui la narratrice si rivolge in seconda persona nella forma della lettera. Sono alcune parole carpite alla madre a svelare l'esistenza della sorella, fino a quel momento e anche in seguito mai menzionata dai genitori. Il giorno dell'involontaria rivelazione materna segna una seconda nascita per la narratrice che inizia a fare i conti con la perdita dell'innocenza. Che l'accompagnerà sempre e le insegnerà a riconoscere le illusioni. Come quel tu utilizzato nella lettera, in realtà una trappola, seducente nel creare un'intimità immaginaria che risolve una vita nella fine dell'altra. Perché non si è mai una cosa sola, il senso di sé è composto da un serie di strati che rimandano ad un presente e ad un passato di cui non siamo il centro. La letteratura può illuminarli, contribuendo così a rendere la vita migliore.
Mi ci sono voluti quasi trent'anni e la scrittura de Il posto per collegare questi due fatti che dentro di me restavano separati l'uno dall'altro – la tua morte e la necessità economica di avere un solo figlio – e per far sì che la realtà sfolgorasse: sono venuta al mondo perché tu sei morta e ti ho sostituita (...) Io non scrivo perché tu sei morta. Tu sei morta perché io potessi scrivere e questo fa una grande differenza.
Paolo Allegrezza
BIBLIOGRAFIA
G. Agamben, L'uso dei corpi, Neri Pozza 2014.
R. Braidotti, Nuovi soggetti nomadi, Ebook@women 2014.
G. Deleuze, Cosa può un corpo ? Lezioni su Spinoza, Ombre corte 2013.
P. Godani, La vita comune. Per una filosofia e una politica oltre l'individuo, Operaviva 2016.
C. Lispector, Le passioni e i legami, Feltrinelli 2013 (introduzione di Emanuele Trevi).
B. Spinoza, Ethica e Trattato teologico-politico, Utet 2013.
domenica 16 ottobre 2016
Reddito senza lavoro 2.
Il lavoro sta cambiando e in gran parte scomparendo. Che occorra pensare un reddito svincolato dal lavoro, lo ribadisce Martin Ford, guru della Silicon Valley, intervistato sull'ultimo numero de L'Espresso, 16/10.Riportiamo un articolo del maggio 2015 di Fabio Chiusi, uscito sempre su L'Espresso che ricostruisce lo scenario con cui la sinistra (chi se no ?) dovrebbe misurarsi.
Il reddito minimo? Lo imporranno i robot
L’automazione e gli algoritmi elimineranno quasi tutto il lavoro. Quindi per salvare il capitalismo serviranno risposte radicali. La tesi di Martin Ford, guru della Silicon Valley
di Fabio Chiusi
La domanda che dobbiamo porci, argomenta l’imprenditore e analista della Silicon Valley, è di conseguenza radicale: la nostra era iperconnessa è compatibile con la prosperità economica? La risposta è complessa. E no, non prevede il “digitale” come panacea istantanea di ogni male. Il mondo dipinto da Ford non è quello, spacciato e da rifiutare, tipico di catastrofisti e neoluddisti: è un mondo, tuttavia, fatto di mansioni intellettuali sempre più in competizione con algoritmi, non persone; e in cui le macchine espandono il loro campo di applicazione dai lavori manuali a quelli che coinvolgono processi decisionali via via più complessi, compresa - in nuce - la creatività.
Secondo i creatori della compagnia tecnologica Narrative Science, che lavora sulla generazione automatica di linguaggio naturale, entro 15 anni il 90 per cento, degli articoli di cronaca politica, finanziaria e sportiva sarà scritto da algoritmi. In azienda, le analisi di Big Data ridurranno i livelli di management, e li accentreranno in meno persone assistite da software di analisi.
«Le macchine stanno cominciando a mostrare curiosità», scrive poi Ford, in uno dei passaggi più inquietanti. Significa che domani anche il posto di lavoro degli scienziati potrebbe essere in pericolo? Già allo stato attuale algoritmi sono in grado di individuare in poche ore le leggi fondamentali della fisica nel movimento di un pendolo, senza alcuna precedente nozione di fisica o delle leggi del moto. È l’algoritmo a condurre l’esperimento, dice l’autore. E, nota uno degli scienziati coinvolti, «l’algoritmo non è passivo, non sta lì a guardare. Fa domande. Questa è curiosità».
Merito della “programmazione genetica”, in cui sostanzialmente gli algoritmi si scrivono da soli, imparando dai propri errori, sulla base di un processo di selezione darwiniana. Nel frattempo, le sempre maggiori ricchezze accumulate da sempre meno persone - dal 1993 al 2010 metà del reddito nazionale negli Stati Uniti è finito nelle mani dell’1 per cento, più ricco, addirittura il 95 per cento, dal 2009 al 2012 - non basteranno più a sostenere la domanda di beni di consumo. E mentre i neolaureati vedono i loro stipendi assottigliarsi del 15 per cento, in un decennio, nemmeno la tradizionale soluzione dello “studiare di più” è sufficiente a garantirsi un lavoro dignitoso.
È preoccupante notare le affinità con il mondo preconizzato, mezzo secolo fa, nel rapporto dell’Ad Hoc Committee sulla “Tripla rivoluzione”; sinistro accorgersi che, nonostante gli avvertimenti, l’allora ipotetica economia «in cui sarà possibile ottenere una produzione potenzialmente illimitata con sistemi di macchine che richiederanno scarsa cooperazione da parte degli esseri umani» è, grosso modo, la nostra.
E se nel quadro desolante rientra anche la sparizione della classe media teorizzata dal tecnologo Jaron Lanier, Ford ricorda anche come a tutto questo si debba aggiungere l’impatto nocivo sul tasso di innovazione, e sulla sua capacità di incidere davvero in positivo sulle nostre condizioni di vita.
Che fare? Per l’autore rifiutare l’automazione è antistorico, e irrealizzabile se non a patto di una indebita ingerenza statale nell’economia; ma non basterà nemmeno imparare a collaborare con le macchine, rendersi complementi invece che sostituti, come auspicano Erik Brynjolfsson e Andrew MacAfee nel recentemente tradotto “The Second Machine Age” (“La nuova rivoluzione delle macchine”, Feltrinelli).
Prima di tutto perché non è detto che il tandem uomo-macchina sia in grado di produrre risultati migliori della sola macchina, né tantomeno di macchine che collaborano - anzi, gli studi e i fatti cominciano a dimostrare il contrario; e poi perché quei risultati dovrebbero essere anche più efficienti in termini di costi, e non si vede ragione di ritenerlo possibile.
Per Ford, quindi, la rivoluzione di un mondo del lavoro in cui l’automazione produce non più meri strumenti ma lavoratori autonomi «richiederà una risposta politica ben più radicale», che l’autore identifica nell’approccio pragmatico dell’economista austriaco Friedrich Hayek: «La soluzione più efficace», scrive formulando la proposta centrale del suo libro, «sarà probabilmente qualche forma di garanzia di reddito minimo».
Un’idea non da “socialisti”, precisa, ma per salvare il capitalismo: si tratta infatti di fornire alle vittime dell’automazione un cuscinetto di spesa che consenta di mantenere aperta per tutti la possibilità di partecipare al libero mercato prima che l’avanzamento delle tecnologie porti a favorire una spinta espansiva dello stato sociale, e dunque del debito, in un contesto in cui la legittimità e la fiducia nello Stato sono ai minimi storici. Solo un primo passo, ma indispensabile secondo l’autore a sventare lo spettro di una crisi tecnologica senza vie di uscita.
lunedì 10 ottobre 2016
Reddito senza lavoro. Se ne parla negli states
Pubblichiamo questo articolo tratto da Vox.com sul reddito svincolato dal lavoro. Da Y combinator, collettivo attivo nella Silicon valley.
Basic income is having a moment. First Finland announced it would launch an ambitious experiment to see if it would work to give everyone in a specified area a set amount of cash every year from the government, no strings attached. Now the Silicon Valley seed investment firm Y Combinator has announced details of a basic income experiment it's funding in in Oakland.1
Four months after saying that the company was interested in funding a pilot, YC announced that it will begin with a short-term project in Oakland. "In our pilot, the income will be unconditional; we’re going to give it to participants for the duration of the study, no matter what," the company stated. "People will be able to volunteer, work, not work, move to another country — anything. We hope basic income promotes freedom, and we want to see how people experience that freedom." If the pilot is successful, YC will follow up with a larger-scale, long-term main study.
The evaluation will be led by Elizabeth Rhodes, a recent PhD from the University of Michigan in social work and political science. YC notes that other contenders for the position included "tenured professors from Oxford, Columbia, and Harvard."
Basic income as an insurance policy for the robot takeover
Y Combinator — a startup incubator that counts Dropbox, Airbnb, and Reddit among its alumni — seems mostly interested in basic income as a response to technological unemployment. In the future, the reasoning goes, enough work will be automated that demand for all but the highest skilled labor will collapse, leaving a small group of programmers and capitalists with all the coconuts and most people with nothing.
I'm skeptical this is ever going to happen (Matt Yglesias makes a good case against the hypothesis here), but basic income is one way to make sure everyone survives structural employment changes in the future.
"I’m fairly confident that at some point in the future, as technology continues to eliminate traditional jobs and massive new wealth gets created, we’re going to see some version of [a basic income] at a national scale," YC president Sam Altman wrote in his initial announcement of the experiment.
This, interestingly enough, is also the rationale used by many radical leftist thinkers to justify a universal basic income. Under one view, delightfully named "fully automated luxury communism," humanity will overcome capitalism by having machines do most of the labor and then distributing the proceeds fairly across a public that will be able to work far less.
Radical theorists Nick Srnicek and Alex Williams wrote in their recently published book Inventing the Future, "The technological infrastructure of the twenty-first century is producing the resources by which a very different political and economic system could be achieved."
Basic income has always brought together ideologically divergent supporters; in the early 1970s, libertarian economist Milton Friedman and 1972 Democratic nominee George McGovern both advocated versions of the plan. But a coalition combining avowed anti-capitalists with literal venture capitalists for the project of basic income is still pretty startling.
What Y Combinator's study could add
Y Combinator's interests here are nonetheless pretty unique. Most past basic income studies — ably reviewed by my colleague Noah Kulwin at Re/code here — have focused on the question of whether the policy reduces work — which was thought of as a bad thing.
The best past experiment, in the Canadian town of Dauphin in the 1970s, was considered promising because it suggested the policy didn't discourage people from working much; only teenagers and new moms(two groups who might be better off not working anyway) reported working less. By contrast, more poorly conducted US studies suggesting that a negative income tax (a variant of basic income that phases out as people earn more from their jobs) discouraged work were taken as a mark against basic income.
However, if YC's concern is caring for people after technology has wiped out all their work, then "does basic income keep you from working" isn't a very interesting question.
Altman writes that he wants to know, "Do people sit around and play video games, or do they create new things? Are people happy and fulfilled? Do people, without the fear of not being able to eat, accomplish far more and benefit society far more? And do recipients, on the whole, create more economic value than they receive? "
These are harder questions to answer. If someone relies on their basic income to create a gorgeous sculpture, how do we measure if that "benefits society far more" than what they were doing before? What if the sculpture is super ugly but it brings the person who made it incredible amounts of joy? Figuring out reliable, non-bullshit metrics for the criteria Altman's proposing is really tough.
But the questions Altman and Rhodes want to answer are in any case different from those posed by most basic income studies to date.
This is a golden age of basic income experiments
The Y Combinator study is one of four notable basic income trials of the late 2010s.
Right now there are two notable experiments in rich countries in the works. The first, in the Dutch city of Utrecht, suffers from the same key flaw as the US study by only targeting existing beneficiaries. The second, much more promising experiment is Finland's, which is testing a whole bunch of approaches. The researchers are trying a pure basic income, a partial basic income paired with some existing welfare benefits, a negative income tax, and some other ideas.
They're also aiming to test the idea not just by randomly selecting a group of people across the country to get benefits, but also by having some areas where a big chunk of residents or even all of them receive the benefit. That lets you see what happens to an entire community when a basic income policy is introduced.
Having a whole town get benefits could have cascading effects as households escape poverty, as some people use the income guarantee as insurance so they can take risks and form companies, as universities see increased enrollment, etc. Dauphin is really the only place we've had a study on that scale so far, so Finland's experiment is adding a lot.
Finally, GiveDirectly, a charity that gives cash directly to desperately poor people, is planning to launch a large-scale experiment of basic income in Kenya, with about 6,000 people getting full basic incomes and more than 15,000 getting at least some form of cash transfer. The study promises to be much, much cheaper than the rich country experiments, as each person getting a basic income will receive only $250 to $400 a year— a pittance by US standards, but as much as or more than the recipients ordinarily make annually.
These three trials are similar in many ways to what Y Combinator is proposing, especially the Finland one. But they're addressing different questions.
Finland and Utrecht want to know if a basic income is a more efficient way of delivering assistance to poor people than their existing policies; they're not particularly interested in ushering in a post-work future.
The GiveDirectly program is trying to figure out if basic income is a viable way to lift people in developing countries out of extreme poverty. That's probably the most promising use of a basic income from a humanitarian perspective. Giving $1,000 to someone living on $2 or less in Rwanda effects a much bigger standard of living increase than giving $1,000 to a poor person in the US.
But none of the three experiments is interested in the kinds of questions — "Does basic income make for a more creative society liberated from the constraints of cash?" "Does basic income increase happiness through greater leisure?" — that Y Combinator wants to answer. If done rigorously, the firm's study could wind up making a useful, original contribution to the basic income movement.
Hope for a post-work future is a big part of why basic income has become popular. It makes sense to test whether basic income can make the best parts of that vision real.
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